Cap. XXII. Del pingere a olio nel muro che sia secco.
Quando gli artefici vogliono lavorare a olio in sul muro secco, due maniere possono tenere: una con fare che il muro, se vi è dato su il bianco o a fresco o in altro modo, si raschi, o se egli è restato liscio senza bianco ma intonacato, vi si dia su due o tre mani di olio bollito e cotto, continoando di ridarvelo su, sino a tanto che non voglia più bere; e poi, secco, si gli dà di mestica o imprimatura, come si disse nel capitolo avanti a questo. Ciò fatto e secco, possono gli artefici calcare o disegnare, e tale opera come la tavola condurre al fine, tenendo mescolato continuo nei colori un poco di vernice, perché facendo questo non accade poi vernicarla.
L'altro modo è che l'artefice di stucco di marmo e di matton pesto finissimo fa un arricciato che sia pulito, e lo rade col taglio della cazzuola, perché il muro ne resti ruvido; appresso gli dà una man d'olio di seme di lino, e poi fa in una pignatta una mistura di pece greca e mastico e vernice grossa, e quella bollita, con un pennel grosso si dà nel muro; poi si distende per quello con una cazzuola da murar che sia di fuoco; questa intasa i buchi dell'arricciato, e fa una pelle più unita per il muro. E poi ch'è secca, si va dandole d'imprimatura o di mestica, e si lavora nel modo ordinario dell'olio, come abbiamo ragionato. E perché la sperienza di molti anni mi ha insegnato come si possa lavorar a olio in sul muro, ultimamente ho seguitato nel dipigner le sale, camere et altre stanze del palazzo del duca Cosimo, il modo che in questo ho per l'adietro molte volte tenuto; il qual modo, brevemente, è questo: facciasi l'arricciato, sopra il quale si ha da far l'intonaco di calce, di matton pesto e di rena, e si lasci seccar bene affatto; ciò fatto, la materia del secondo intonaco sia calce, matton pesto stiacciato bene, e schiuma di ferro, perché tutte e tre queste cose, cioè di ciascuna il terzo, incorporate con chiara d'uova battute quanto fa bisogno, et olio di seme di lino, fanno uno stucco tanto serrato, che non si può disiderar in alcun modo migliore. Ma bisogna bene avvertire di non abbandonare l'intonaco mentre la materia è fresca, perché fenderebbe in molti luoghi; anzi è necessario, a voler che si conservi buono, non se gli levar mai d'intorno con la cazzuola o vero mestola o cucchiara che vogliam dire, insino a che non sia del tutto pulitamente disteso come ha da stare. Secco poi che sia questo intonaco, e datovi sopra d'imprimatura o mestica, si condurranno le figure e le storie perfettamente, come l'opere del detto palazzo e molte altre possono chiaramente dimostrare a ciascuno.
Cap. XXIII. Del dipignere a olio su le tele.
Gli uomini per potere portare le pitture di paese in paese, hanno trovato la comodità delle tele dipinte, come quelle che pesano poco, et avvolte sono agevoli a trasportarsi. Queste a olio, perch'elle siano arrendevoli, se non hanno a stare ferme non s'ingessano, atteso che il gesso vi crepa su arrotolandole; però si fa una pasta di farina con olio di noce, et in quello si metteno due o tre macinate di biacca; e quando le tele hanno avuto tre o quattro mani di colla, che sia dolce, ch'abbia passato da una banda all'altra, con un coltello si dà questa pasta, e tutti i buchi vengono con la mano dell'artefice a turarsi. Fatto ciò, se le dà una o due mani di colla dolce, e da poi la mestica o imprimatura; et a dipignervi sopra si tiene il medesimo modo che agl'altri di sopra racconti. E perché questo modo è paruto agevole e commodo, si sono fatti non solamente quadri piccioli per portare attorno, ma ancora tavole da altari et altre opere di storie, grandissime, come si vede nelle sale del palazzo di S. Marco di Vinezia, et altrove, avenga che dove non arriva la grandezza delle tavole, serve la grandezza e 'l commodo delle tele.
Cap. XXIV. Del dipingere in pietra a olio, e che pietre siano buone.
È cresciuto sempre lo animo a' nostri artefici pittori, faccendo che il colorito a olio, oltra l'averlo lavorato in muro, si possa volendo lavorare ancora su le pietre; delle quali hanno trovato nella riviera di Genova quella spezie di lastre che noi dicemmo nella architettura che sono attissime a questo bisogno; perché per esser serrate in sé e per avere la grana gentile pigliano il pulimento piano. In su queste hanno dipinto modernamente quasi infiniti e trovato il modo vero da potere lavorarvi sopra. Hanno provate poi le pietre più fine, come mischi di marmo, serpentini e porfidi, et altre simili, che sendo liscie e brunite, vi si attacca sopra il colore. Ma nel vero, quando la pietra sia ruvida et arida, molto meglio inzuppa e piglia l'olio bollito et il colore dentro; come alcuni piperni o vero piperigni gentili, i quali quando siano battuti col ferro e non arrenati con rena o sasso di tufi, si possono spianare con la medesima mistura che dissi nell'arricciato, con quella cazzuola di ferro infocata. Perciò che a tutte queste pietre non accade dar colla in principio, ma solo una mano d'imprimatura di colore a olio, cioè mestica; e secca che ella sia, si può cominciare il lavoro a suo piacimento. E chi volesse fare una storia a olio su la pietra, può tôrre di quelle lastre genovesi e farle fare quadre, e fermarle nel muro co' perni sopra una incrostatura di stucco, distendendo bene la mestica in su le commettiture, di maniera che e' venga a farsi per tutto un piano di che grandezza l'artefice ha bisogno. E questo è il vero modo di condurre tali opre a fine; e, finite, si può a quelle fare ornamenti di pietre fini, di misti e d'altri marmi; le quali si rendono durabili in infinito, purché con diligenza siano lavorate; e possonsi e non si possono vernicare, come altrui piace, perché la pietra non prosciuga, cioè non sorbisce quanto fa la tavola e la tela, e si difende da' tarli, il che non fa il legname.
Cap. XXV. Del dipignere nelle mura di chiaro e scuro di varie terrette; e come si contrafanno le cose di bronzo; e delle storie di terretta per archi o per feste, a colla, che è chiamato a guazzo et a tempera.
Vogliono i pittori che il chiaroscuro sia una forma di pittura che tragga più al disegno che al colorito, perché ciò è stato cavato dalle statue di marmo contrafacendole, e dalle figure di bronzo et altre varie pietre; e questo hanno usato di fare nelle faciate de' palazzi e case in istorie, mostrando che quelle siano contrafatte, e paino di marmo o di pietra con quelle storie intagliate; o veramente contrafacendo quelle sorti di spezie di marmo e porfido, e di pietra verde, e granito rosso e bigio, o bronzo, o altre pietre, come par loro meglio, si sono accommodati in più spartimenti di questa maniera; la qual'è oggi molto in uso per fare le facce delle case e de' palazzi, così in Roma come per tutta Italia.
Queste pitture si lavorano in due modi, prima in fresco, che è la vera, o in tele per archi, che si fanno nell'entrate de' principi nelle città e ne' trionfi, o negli apparati delle feste e delle comedie, perché in simili cose fanno bellissimo vedere. Trattaremo prima della spezie e sorte del fare in fresco, poi diremo de l'altra. Di questa sorte di terretta si fanno i campi con la terra da fare i vasi, mescolando quella con carbone macinato o altro nero per far l'ombre più scure, e bianco di trevertino con più scuri e più chiari, e si lumeggiano col bianco schietto, e con ultimo nero a ultimi scuri finite. Vogliono avere tali specie fierezza, disegno, forza, vivacità e bella maniera, et essere espresse con una gagliardezza che mostri arte e non stento, perché si hanno a vedere et a conoscere di lontano. E con queste ancora s'imitino le figure di bronzo, le quali col campo di terra gialla e rossa s'abbozzano, e con più scuri di quello nero e rosso e giallo si sfondano, e con giallo schietto si fanno i mezzi, e con giallo e bianco si lumeggiano. E di queste hanno i pittori le facciate e le storie di quelle con alcune statue tramezzate, che in questo genere hanno grandissima grazia.