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E gli uomini di quei tempi non essendo usati a veder altra bontà né maggior perfezzione nelle cose di quella che essi vedevano, si maravigliavano, e quelle ancora che baronesche fossero, nondimeno per le migliori apprendevano. Pur, gli spirti di coloro che nascevano, aitati in qualche luogo dalla sottilità dell'aria, si purgarono tanto, che nel MCCL il cielo, a pietà mossosi dei begli ingegni che 'l terren toscano produceva ogni giorno, li ridusse alla forma primiera. E sebbene gli innanzi a loro avevano veduto residui d'archi, o di colossi, o di statue, o pili, o colonne storiate, nell'età che furono dopo i sacchi e le ruine e gl'incendi di Roma, e' non seppono mai valersene o cavarne profitto alcuno, sino al tempo detto di sopra. Gli ingegni che vennero poi, conoscendo assai bene il buono dal cattivo, e abbandonando le maniere vecchie, ritornarono ad imitare le antiche con tutta l'industria et ingegno loro.

Ma perché più agevolmente s'intenda quello che io chiami vecchio et antico, antiche furono le cose innanzi a Costantino, di Corinto, d'Atene e di Roma, e d'altre famosissime città, fatte fino a sotto Nerone, ai Vespasiani, Traiano, Adriano et Antonino; perciò che l'altre si chiamano vecchie, che da S. Salvestro in qua furono poste in opera da un certo residuo de' Greci; i quali piuttosto tignere che dipignere sapevano. Perché essendo in quelle guerre morti gl'eccellenti primi artefici, come si è detto, al rimanente di que' Greci vecchi, e non antichi, altro non era rimaso che le prime linee in un campo di colore; come di ciò fanno fede oggidì infiniti musaici, che per tutta Italia lavorati da essi Greci si veggono per ogni vecchia chiesa di qualsivoglia città d'Italia, e massimamente nel Duomo di Pisa, in S. Marco di Vinegia, et ancora in altri luoghi; e così molte pitture, continovando, fecero di quella maniera con occhi spiritati e mani aperte in punta di piedi, come si vede ancora in S. Miniato fuor di Fiorenza fra la porta che va in sagrestia e quella che va in convento et in S. Spirito di detta città tutta la banda del chiostro verso la chiesa, e similmente in Arezzo in S. Giuliano et in S. Bartolomeo et in altre chiese, et in Roma in S. Pietro, nel vecchio, storie intorno intorno fra le finestre, cose che hanno più del mostro nel lineamento che effigie di quel ch'e' si sia.

Di scultura ne fecero similmente infinite, come si vede ancora sopra la porta di S. Michele a piazza Padella di Fiorenza, di basso rilievo; et in Ogni Santi, e per molti luoghi, sepulture et ornamenti di porte per chiese, dove hanno per mensole certe figure per regger il tetto così goffe e sì ree, e tanto malfatte di grossezza e di maniera, che par impossibile che imaginare peggio si potesse.

Sino a qui mi è parso discorrere dal principio della scultura e della pittura, e per avventura più largamente che in questo luogo non bisognava; il che ho io però fatto, non tanto trasportato dall'affezzione dell'arte, quanto mosso dal benefizio et utile comune degli artefici nostri: i quali, avendo veduto in che modo ella da piccol principio si conducesse alla somma altezza, e come da grado sì nobile precipitasse in ruina estrema, e per conseguente la natura di quest'arte, simile a quella dell'altre, che come i corpi umani hanno il nascere, il crescere, lo invecchiare et il morire, potranno ora più facilmente conoscere il progresso della sua rinascita e di quella stessa perfezzione dove ella è risalita ne' tempi nostri. Et a cagione ancora, che se mai (il che non acconsenta Dio) accadesse per alcun tempo per la trascuraggine degli uomini o per la malignità de' secoli, oppure per ordine de' cieli, i quali non pare che voglino le cose di quaggiù mantenersi molto in uno essere, ella incorresse di nuovo nel medesimo disordine di rovina, possano queste fatiche mie, qualunche elle si siano (se elle però saranno degne di più benigna fortuna), per le cose discorse innanzi e per quelle che hanno da dirsi, mantenerla in vita, o almeno dare animo ai più elevati ingegni di provederle migliori aiuti; tanto che con la buona volontà mia e con le opere di questi tali ella abbondi di quegli aiuti et ornamenti, dei quali (siami lecito liberamente dire il vero) ha mancato sino a quest'ora.

Ma tempo è di venire oggimai alla vita di Giovanni Cimabue, il quale, sì come dette principio al nuovo modo di disegnare e di dipignere, così è giusto e conveniente che e' lo dia ancora alle Vite, nelle quali mi sforzerò di osservare, il più che si possa, l'ordine delle maniere loro, più che del tempo. E nel descrivere le forme e le fattezze degli artefici sarò breve, perché i ritratti loro, i quali sono da me stati messi insieme con non minore spesa e fatica che diligenza, meglio dimostreranno quali essi artefici fussero quanto all'effigie, che il raccontarlo non farebbe già mai; e se d'alcuno mancasse il ritratto, ciò non è per colpa mia, ma per non si essere in alcuno luogo trovato. E se i detti ritratti non paressero a qualcuno per avventura simili affatto ad altri che si trovassono, voglio che si consideri che il ritratto fatto d'uno quando era di diciotto o venti anni, non sarà mai simile al ritratto che sarà stato fatto quindici o venti anni poi. A questo si aggiugne, che i ritratti dissegnati non somigliano mai tanto bene quanto fanno i coloriti; senza che gli intagliatori, che non hanno disegno, tolgono sempre alle figure, per non potere né sapere fare appunto quelle minuzie che le fanno esser buone e somigliare quella perfezzione che rade volte o non mai hanno i ritratti intagliati in legno. Insomma quanta sia stata in ciò la fatica, spesa, e diligenza mia, coloro il sapranno che leggendo vedranno onde io gli abbia quanto ho potuto il meglio ricavati, etc.

FINE DEL PROEMIO DELLE VITE

DELLE VITE DE' PITTORI, SCULTORI E ARCHITETTORI CHE SONO STATI DA CIMABUE IN QUA

SCRITTE DA MESSER GIORGIO VASARI PITTORE ARETINO

PARTE PRIMA

VITA DI CIMABUE PITTORE FIORENTINO

Erano per l'infinito diluvio de' mali che avevano cacciato al disotto et affogata la misera Italia, non solamente rovinate quelle che veramente fabriche chiamar si potevano, ma, quello che importava più, spento affatto tutto il numero degl'artefici; quando, come Dio volle, nacque nella città di Fiorenza, l'anno MCCXL, per dar e' primi lumi all'arte della pittura, Giovanni cognominato Cimabue, della nobil famiglia in que' tempi d'i Cimabui. Costui, crescendo, per esser giudicato dal padre e da altri di bello e acuto ingegno, fu mandato, acciò si esercitasse nelle lettere, in S. Maria Novella a un maestro suo parente, che allora insegnava grammatica a' novizii di quel convento; ma Cimabue in cambio d'attendere alle lettere, consumava tutto il giorno, come quello che a ciò si sentiva tirato dalla natura, in dipignere, in su' libri et altri fogli, uomini, cavalli, casamenti et altre diverse fantasie; alla quale inclinazione di natura fu favorevole la fortuna; perché essendo chiamati in Firenze, da chi allora governava la città, alcuni pittori di Grecia, non per altro, che per rimettere in Firenze la pittura più tosto perduta che smarrita, cominciarono, fra l'altre opere tolte a far nella città, la cappella de' Gondi, di cui oggi le volte e le facciate sono poco meno che consumate dal tempo, come si può vedere in S. Maria Novella allato alla principale capella, dove ell'è posta. Onde Cimabue, cominciato a dar principio a questa arte che gli piaceva, fuggendosi spesso dalla scuola, stava tutto il giorno a vedere lavorare que' maestri; di maniera che, giudicato dal padre e da quei pittori in modo atto alla pittura, che si poteva di lui sperare, attendendo a quella professione, onorata riuscita; con non sua piccola sodisfazzione fu da detto suo padre acconcio con esso loro; là dove, di continuo esercitandosi, l'aiutò in poco tempo talmente la natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno come nel colorire, la maniera de' maestri che gli insegnavano; i quali, non si curando passar più innanzi, avevano fatte quelle opre nel modo che elle si veggono oggi, cioè non nella buona maniera greca antica, ma in quella goffa moderna di que' tempi; e perché, sebbene imitò que' Greci, aggiunse molta perfezzione all'arte, levandole gran parte della maniera loro goffa, onorò la sua patria col nome e con l'opre che fece; di che fanno fede in Fiorenza le pitture che egli lavorò, come il dossale dell'altare di S. Cecilia, et in S. Croce una tavola drentovi una Nostra Donna, la quale fu et è ancora appoggiata in uno pilastro a man destra intorno al coro. Doppo la quale fece in una tavoletta in campo d'oro un S. Francesco, e lo ritrasse, il che fu cosa nuova in que' tempi, di naturale, come seppe il meglio, et intorno a esso tutte l'istorie della vita sua in venti quadretti pieni di figure picciole in campo d'oro. Avendo poi preso a fare per i monaci di Vall'Ombrosa nella Badia di Santa Trinita di Fiorenza una gran tavola, mostrò in quell'opera, usandovi gran diligenza per rispondere alla fama che già era conceputa di lui, migliore invenzione, e bel modo nell'attitudini d'una Nostra Donna, che fece col Figliuolo in braccio e con molti Angeli intorno che l'adoravano in campo d'oro; la qual tavola finita, fu posta, da que' monaci in sull'altar maggiore di detta chiesa, donde essendo poi levata, per dar quel luogo alla tavola che v'è oggi di Alesso Baldovinetti, fu posta in una cappella minor della navata sinistra di detta chiesa. Lavorando poi in fresco allo Spedale del Porcellana sul canto della via Nuova che va in Borgo Ogni Santi, nella facciata dinanzi che ha in mezzo la porta principale, da un lato la Vergine Annunziata da l'Angelo, e da l'altro Gesù Cristo con Cleofas e Luca, figure grandi quanto il naturale, levò via quella vecchiaia, facendo in quest'opra, i panni, e le vesti, e l'altre cose un poco più vive, e naturali, e più morbide che la maniera di que' Greci, tutta piena di linee e di proffili così nel musaico come nelle pitture; la qual maniera scabrosa e goffa et ordinaria avevano, non mediante lo studio, ma per una cotal usanza insegnato l'uno all'altro per molti e molti anni i pittori di que' tempi, senza pensar mai a migliorare il disegno, a bellezza di colorito, o invenzione alcuna che buona fusse. Essendo dopo quest'opera richiamato Cimabue dallo stesso guardiano che gl'aveva fatto fare l'opere di S. Croce, gli fece un Crocifisso grande in legno che ancora oggi si vede in chiesa; la quale opera fu cagione, parendo al guardiano esser stato servito bene, che lo conducesse in S. Francesco di Pisa loro convento, a fare in una tavola un S. Francesco, che fu da que' popoli tenuto cosa rarissima, conoscendosi in esso un certo che più di bontà, e nell'aria della testa e nelle pieghe de' panni, che nella maniera greca non era stata usata in sin allora da chi aveva alcuna cosa lavorato non pur in Pisa, ma in tutta Italia. Avendo poi Cimabue per la medesima chiesa fatto in una tavola grande l'immagine di Nostra Donna col Figliuolo in collo, e con molti Angeli intorno pur in campo d'oro, ella fu dopo non molto tempo levata di dove ell'era stata collocata la prima volta, per farvi l'altare di marmo che vi è al presente, e posta dentro alla chiesa allato alla porta a man manca; per la quale opera fu molto lodato e premiato da' Pisani. Nella medesima città di Pisa fece a richiesta dell'abbate allora di S. Paolo in Ripa d'Arno, in una tavoletta una S. Agnesa, et intorno a essa, di figure piccole, tutte le storie della vita di lei; la qual tavoletta è oggi sopra l'altare delle Vergini in detta chiesa.