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Partì per Roma Michelagnolo in fretta, et infestato di nuovo da Francesco Maria duca di Urbino nipote di papa Giulio, il quale si doleva di Michelagnolo dicendo che aveva ricevuto sedici mila scudi per detta sepoltura e che se ne stava in Fiorenza a' suoi piaceri, e lo minacciò malamente che se non vi attendeva lo farebbe capitare male. Giunto a Roma papa Clemente, che se ne voleva servire, lo consigliò che facessi conto cogli agenti del Duca, ché pensava che a quel che gli aveva fatto fussi più tosto creditore che debitore; la cosa restò così. E ragionando insieme di molte cose, si risolsero di finire affatto la sagrestia e libreria nuova di S. Lorenzo di Fiorenza. Laonde, partitosi di Roma, e' voltò la cupola che vi si vede, la quale di vario componimento fece lavorare, et al Piloto orefice fece fare una palla a settantadue facce che è bellissima. Accadde mentre che e' la voltava, che fu domandato da alcuni suoi amici: "Michelagnolo, voi doverete molto variare la vostra lanterna da quella di Filippo Bruneleschi", et egli rispose loro: "Egli si può ben variare, ma migliorare no".

Fecevi dentro quattro sepolture per ornamento nelle facce, per li corpi de' padri de' due papi, Lorenzo vecchio e Giuliano suo fratello, e per Giuliano fratello di Leone e per Lorenzo suo nipote. E perché egli la volse fare ad imitazione della sagrestia vecchia, che Filippo Brunelleschi aveva fatto, ma con altro ordine di ornamenti, vi fece dentro uno ornamento composito, nel più vario e più nuovo modo che per tempo alcuno gli antichi et i moderni maestri abbino potuto operare; perché nella novità di sì belle cornici, capitegli e base, porte, tabernacoli e sepolture, fece assai diverso da quello che di misura, ordine e regola facevano gli uomini secondo il comune uso e secondo Vitruvio e le antichità, per non volere a quello agiugnere. La quale licenzia ha dato grande animo a quelli che hanno veduto il far suo di mettersi a imitarlo, e nuove fantasie si sono vedute poi alla grottesca più tosto che a ragione o regola, a' loro ornamenti. Onde gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendo egli rotti i lacci e le catene delle cose, che per via d'una strada comune eglino di continuo operavano. Ma poi lo mostrò meglio e volse far conoscere tal cosa nella libreria di San Lorenzo nel medesimo luogo, nel bel partimento delle finestre, nello spartimento del palco e nella maravigliosa entrata di quel ricetto. Né si vidde mai grazia più risoluta nel tutto e nelle parti come nelle mensole, ne' tabernacoli e nelle cornici, né scala più comoda: nella quale fece tanto bizzarre rotture di scaglioni e variò tanto da la comune usanza delli altri, che ogni uno se ne stupì. Mandò in quello tempo Pietro Urbano pistolese suo creato a Roma a mettere in opera un Cristo ignudo che tiene la croce, il quale è una figura mirabilissima, che fu posto nella Minerva allato alla cappella maggiore per Messer Antonio Metelli. Seguì intorno a questo tempo il Sacco di Roma, la cacciata de' Medici di Firenze, nel qual mutamento disegnando chi governava rifortificare quella città, feciono Michelagnolo sopra tutte le fortificazioni commessario generale. Dove in più luoghi disegnò e fece fortificar la città, e finalmente il poggio di S. Miniato cinse di bastioni, i quali non colle piote di terra faceva e legnami e stipe alla grossa, come s'usa ordinariamente, ma armadure di sotto intessute di castagni e quercie e di altre buone maniere, et in cambio di piote prese mattoni crudi fatti con capechio e sterco di bestie, spianati con somma diligenza: e perciò fu mandato dalla Signoria di Firenze a Ferrara a vedere le fortificazioni del duca Afonso Primo, e così le sue artiglierie e munizioni; ove ricevé molte cortesie da quel signore, che lo pregò che gli facessi a comodo suo qualche cosa di sua mano, che tutto gli promesse Michelagnolo; il quale tornato andava del continuo anco fortificando la città, e benché avessi questi impedimenti lavorava nondimeno un quadro d'una Leda per quel Duca, colorito a tempera di sua mano, che fu cosa divina, come si dirà a suo luogo, e le statue per le sepolture di San Lorenzo segretamente. Stette Michelagnolo ancora in questo tempo sul monte di San Miniato forse sei mesi per sollecitare quella fortificazione del monte, perché se 'l nemico se ne fussi impadronito era perduta la città, e così con ogni sua diligenza seguitava queste imprese. Et in questo tempo seguitò in detta sagrestia l'opera; che di quella restarono parte finite e parte no sette statue, nelle quali con le invenzioni dell'architettura delle sepolture è forza confessare che egli abbia avanzato ogni uomo in queste tre professioni. Di che ne rendono ancora testimonio quelle statue, che da lui furono abozzate e finite di marmo che in tal luogo si veggono: l'una è la Nostra Donna, la quale nella sua attitudine sedendo manda la gamba ritta adosso alla manca con posar ginocchio sopra ginocchio, et il Putto inforcando le cosce in su quella che è più alta, si storce con attitudine bellissima in verso la madre chiedendo il latte, et ella con tenerlo con una mano e con l'altra apogiandosi si piega per dargliene. Ancora che non siano finite le parti sue, si conosce nell'essere rimasta abozzata e gradinata nella imperfezione della bozza la perfezzione dell'opera. Ma molto più fece stupire ciascuno che considerando nel fare le sepolture del duca Giuliano e del duca Lorenzo de' Medici egli pensassi che non solo la terra fussi per la grandezza loro bastante a dar loro onorata sepoltura, ma volse che tutte le parti del mondo vi fossero, e che gli mettessero in mezzo e coprissero il lor sepolcro quattro statue: a uno pose la Notte et il Giorno, a l'altro l'Aurora et il Crepuscolo; le quali statue sono con bellissime forme di attitudini et artificio di muscoli lavorate, bastanti, se l'arte perduta fosse, a ritornarla nella pristina luce. Vi son fra l'altre statue que' due capitani armati, l'uno il pensoso duca Lorenzo, nel sembiante della saviezza con bellissime gambe talmente fatte che occhio non può veder meglio, l'altro è il duca Giuliano sì fiero con una testa e gola con incassatura di occhi, profilo di naso, sfenditura di bocca e capegli sì divini, mani, braccia, ginocchia e piedi; et insomma tutto quello che quivi fece è da fare che gli occhi né stancare né saziare vi si possono già mai. Veramente chi risguarda la bellezza de' calzari e della corazza, celeste lo crede e non mortale. Ma che dirò io della Aurora femina ignuda e da fare uscire il maninconico dell'animo e smarrire lo stile alla scultura? Nella quale attitudine si conosce il suo sollecito levarsi sonnacchiosa, svilupparsi dalle piume, perché pare che nel destarsi ella abbia trovato serrato gli occhi a quel gran Duca. Onde si storce con amaritudine, dolendosi nella sua continovata bellezza in segno del gran dolore. E che potrò io dire della Notte, statua non rara, ma unica? Chi è quello che abbia per alcun secolo in tale arte veduto mai statue antiche o moderne così fatte? Conoscendosi non solo la quiete di chi dorme, ma il dolore e la malinconia di chi perde cosa onorata e grande. Credasi pure che questa sia quella Notte la quale oscuri tutti coloro che per alcun tempo nella scultura e nel disegno pensavano, non dico di passarlo, ma di paragonarlo già mai. Nella qual figura, quella sonnolenza si scorge che nelle imagini adormentate si vede; per che da persone dottissime furono in lode sua fatti molti versi latini e rime volgari come questi de' quali non si sa l'autore:

La Notte, che tu vedi in sì dolci atti

dormir, fu da uno Angelo scolpita

in questo sasso; e perché dorme, ha vita.

Destala, se non 'l credi, e parleratti.

A' quali in persona della Notte rispose Michelagnolo così:

Grato mi è il sonno, e più l'esser di sasso,

mentre che il danno e la vergogna dura,

non veder, non sentir, m'è gran ventura:

però non mi destar, deh, parla basso.

E certo se la inimicizia ch'è tra la fortuna e la virtù, e la bontà d'una e la invidia dell'altra avesse lasciato condurre tal cosa a fine, poteva mostrare l'arte alla natura, che ella di gran lunga in ogni pensiero l'avanzava. Lavorando egli con sollecitudine e con amore grandissimo tali opere, crebbe, che pur troppo li impedì il fine, lo assedio di Fiorenza, l'anno 1529; il quale fu cagione che poco o nulla egli più vi lavorasse, avendogli i cittadini dato la cura di fortificare oltra al monte di San Miniato, la terra, come s'è detto. Conciò sia che avendo egli prestato a quella republica mille scudi e trovandosi de' Nove della milizia ufizio deputato sopra la guerra, volse tutto il pensiero e lo animo suo a dar perfezione a quelle fortificazioni, et avendola stretta finalmente l'esercito intorno, et a poco a poco mancata la speranza degli aiuti e cresciute le dificultà del mantenersi, e parendogli di trovarsi a strano partito, per sicurtà della persona sua si deliberò partire di Firenze et andarsene a Vinezia senza farsi conoscere per la strada a nessuno. Partì dunque segretamente per la via del monte di San Miniato che nessuno il seppe, menandone seco Antonio Mini suo creato e 'l Piloto orefice amico suo fedele, e con essi portarono sul dosso uno imbottito per uno di scudi ne' giubboni. Et a Ferrara condotti, riposandosi, avvenne che per gli sospetti della guerra e per la lega dello imperatore e del Papa, che erano intorno a Fiorenza, il duca Alfonso da Este teneva ordini in Ferrara e voleva sapere secretamente dagli osti che alloggiavano, i nomi di tutti coloro che ogni dì alloggiavano, e la listra de' forestieri di che nazione si fossero ogni dì si faceva portare. Avvenne dunque che essendo Michelagnolo quivi con animo di non esser conosciuto, e con li suoi scavalcato, fu ciò per questa via noto al Duca, che se ne rallegrò per esser divenuto amico suo. Era quel principe di grande animo e mentre che visse si dilettò continuamente della virtù. Mandò subito alcuni de' primi della sua corte che per parte di sua eccellenza in palazzo e dove era il Duca lo conducessero, et i cavalli et ogni sua cosa levassero e bonissimo alloggiamento in palazzo gli dessero. Michelagnolo trovandosi in forza altrui, fu constretto ubidire, e quel che vender non poteva, donare, et al Duca con coloro andò senza levare le robe dell'osteria. Per che fattogli il Duca accoglienze grandissime e doltosi della sua salvatichezza, et apresso fattogli di ricchi et onorevoli doni, volse con buona provisione in Ferrara fermarlo. Ma egli non avendo a ciò l'animo intento, non vi volle restare; e pregatolo almeno che mentre la guerra durava non si partisse, il Duca di nuovo gli fece offerte di tutto quello che era in poter suo. Onde Michelagnolo, non volendo esser vinto di cortesia, lo ringraziò molto, e voltandosi verso i suoi due disse che aveva portato in Ferrara dodicimila scudi, e che se gli bisognava erano al piacer suo insieme con esso lui. Il Duca lo menò a spasso come aveva fatto altra volta per il palazzo, e quivi gli mostrò ciò che aveva di bello fino a un suo ritratto di mano di Tiziano, il quale fu da lui molto commendato. Né però lo poté mai fermare in palazzo, perché egli alla osteria volse ritornare, onde l'oste che l'alloggiava ebbe sotto mano dal Duca infinite cose da fargli onore e commissione alla partita sua di non pigliare nulla del suo alloggio. Indi si condusse a Vinegia, dove desiderando di conoscerlo molti gentiluomini, egli che sempre ebbe poca fantasia che di tale esercizio s'intendessero, si partì di Giudecca, dove era alloggiato, dove si dice che allora disegnò per quella città, pregato dal doge Gritti, il ponte del Rialto, disegno rarissimo d'invenzione e d'ornamento.