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Dicendomi essi adunque che vi volevano la Nostra Donna col Figlio in collo, San Giovanni Batista e San Ieronimo, i quali ambidue furono eremiti et abitarono i boschi e le selve, mi parti' dall'ermo e scorsi giù alla Badia loro di Camaldoli, dove fattone con prestezza un disegno, che piacque loro, cominciai la tavola, et in due mesi l'ebbi finita del tutto e messa al suo luogo, con molto piacere di que' padri (per quanto mostrarono) e mio; il quale in detto spazio di due mesi, provai quanto molto più giovi agli studii una dolce quiete et onesta solitudine, che i rumori delle piazze e delle corti, conobbi dico l'error mio, d'avere posto per l'addietro le speranze mie negl'uomini e nelle baie e girandole di questo mondo. Finita dunque la detta tavola, mi allogorono subitamente il resto del tramezzo della chiesa, cioè le storie et altro, che da basso et alto vi andavano di lavoro a fresco, perciò che le facessi la state vegnente, atteso che la vernata non sarebbe quasi possibile lavorare a fresco in quell'alpe e fra que' monti.

Per tanto, tornato in Arezzo fini' la tavola di San Rocco, facendovi la Nostra Donna, sei Santi et un Dio Padre, con certe saette in mano figurate per la peste. Le quali mentre egli è in atto di fulminare, è pregato da San Rocco et altri Santi per lo popolo. Nella facciata sono molte figure a fresco, le quali insieme con la tavola sono come sono. Mandandomi poi a chiamare in val di Caprese fra' Bartolomeo Graziani, frate di Sant'Agostino dal Monte San Savino, mi diede a fare una tavola grande a olio nella chiesa di Santo Agostino del monte detto, per l'altar maggiore. E così rimaso d'accordo, me ne venni a Firenze a vedere Messer Ottaviano, dove stando alcuni giorni, durai delle fatiche a far sì che non mi rimettesse al servizio delle corti, come aveva in animo; pure io vinsi la pugna con buone ragioni, e risolveimi d'andar per ogni modo, avanti che altro facessi, a Roma. Ma ciò non mi venne fatto se non poi che ebbi fatto al detto Messer Ottaviano una copia del quadro, nel quale ritrasse già Raffaello da Urbino papa Leone, Giulio cardinale de' Medici et il cardinale de' Rossi, perciò che il Duca rivoleva il proprio, che allora era in potere di esso Messer Ottaviano. La qual copia che io feci è oggi nelle case degl'eredi di quel signore, il quale nel partirmi per Roma mi fece una lettera di cambio di 500 scudi a Giovanbatista Puccini, che me gli pagasse ad ogni mia richiesta, dicendomi: "Serviti di questi per potere attendere a' tuoi studii; quando poi n'arai il commodo, potrai rendermegli o in opere, o in contanti a tuo piacimento".

Arrivato dunque in Roma di febraio l'anno 1538, vi stei tutto giugno, attendendo, in compagnia di Giovanbatista Cungi dal Borgo mio garzone, a disegnare tutto quello che mi era rimaso indietro l'altre volte che era stato in Roma, et in particolare ciò che era sotto terra nelle grotte. Né lasciai cosa alcuna d'architettura o scultura che io non disegnassi e non misurassi; in tanto che posso dire con verità che i disegni ch'io feci in quello spazio di tempo furono più di trecento. De' quali ebbi poi piacere et utile molti anni in rivedergli, e rinfrescare la memoria delle cose di Roma. Le quali fatiche e studio, quanto mi giovassero, si vide tornato che fui in Toscana nella tavola, che io feci al Monte San Savino, nella quale dipinsi con alquanto miglior maniera un'Assunzione di Nostra Donna, e da basso, oltre agl'Apostoli che sono intorno al sepolcro, Santo Agostino e San Romualdo.

Andato poi a Camaldoli, secondo che avea promesso a que' padri romiti, feci nell'altra tavola del tramezzo la Natività di Gesù Cristo, fingendo una notte alluminata dallo splendore di Cristo nato, circondato da alcuni pastori che l'adorano. Nel che fare andai imitando con i colori i raggi solari, e ritrassi le figure e tutte l'altre cose di quell'opera dal naturale e col lume, acciò fussero più che si potesse simili al vero. Poi, perché quel lume non potea passare sopra la capanna, da quivi in su et all'intorno, feci che suplisse un lume che viene dallo splendore degl'Angeli che in aria cantano Gloria in excelsis Deo, senzaché in certi luoghi fanno lume i pastori, che vanno attorno con covoni di paglia accesi, et in parte la luna, la stella e l'Angelo che apparisce a certi pastori. Quanto poi al casamento, feci alcune anticaglie a mio capriccio con statue rotte, et altre cose somiglianti. Et insomma condussi quell'opera con tutte le forze e saper mio, e se bene non arrivai con la mano e col pennello al gran disiderio e volontà di ottimamente operare, quella pittura nondimeno a molti è piaciuta. Onde Messer Fausto Sabeo, uomo letteratissimo et allora custode della libreria del Papa, fece, e dopo lui alcuni altri, molti versi latini in lode di quella pittura, mossi per aventura più da molta affezzione, che dall'eccellenza dell'opera; comunche sia, se cosa vi è di buono, fu dono di Dio.

Finita quella tavola, si risolverono i padroni che io facessi a fresco nella facciata le storie che vi andavano; onde feci sopra la porta il ritratto dell'eremo, da un lato San Romualdo con un doge di Vinezia, che fu sant'uomo, e dall'altro una visione, che ebbe il detto Santo là dove fece poi il suo eremo, con alcune fantasie, grottesche et altre cose che vi si veggiono. E ciò fatto, mi ordinarono che la state dell'anno a venire io tornassi a fare la tavola dell'altar grande. Intanto il già detto don Miniato Pitti, che allora era visitator della congregazione di Monte Uliveto, avendo veduta la tavola del Monte S. Savino e l'opere di Camaldoli, trovò in Bologna don Filippo Serragli fiorentino, abbate di S. Michele in Bosco, e gli disse che avendosi a dipignere il refettorio di quell'onorato monasterio, gli pareva che a me e non ad altri si dovesse quell'opera allogare; per che fattomi andare a Bologna, ancor che l'opera fusse grande e d'importanza, la tolsi a fare, ma prima volli vedere tutte le più famose opere di pittura che fussero in quella città, di bolognesi e d'altri. L'opera dunque della testata di quel refettorio fu divisa in tre quadri: in uno aveva ad essere quando Abramo nella valle Mambre apparecchiò da mangiare agl'Angeli; nel secondo Cristo che essendo in casa di Maria Madalena e Marta, parla con essa Marta, dicendogli che Maria ha eletto l'ottima parte; e nella terza aveva da essere dipinto S. Gregorio a mensa co' dodici poveri, fra i quali conobbe essere Cristo. Per tanto messo mano all'opera in quest'ultima finsi San Gregorio a tavola in un convento, e servito da monaci bianchi di quell'Ordine, per potervi accomodare que' padri, secondo che essi volevano. Feci, oltre ciò, nella figura di quel santo Pontefice l'effigie di papa Clemente VII, et intorno, fra molti signori, ambasciadori, principi et altri personaggi che lo stanno a vedere mangiare, ritrassi il duca Alessandro de' Medici per memoria de' beneficii e favori che io aveva da lui ricevuti, e per essere stato chi egli fu, e con esso molti amici miei; e fra coloro che servono a tavola, poveri, ritrassi alcuni frati miei domestici di quel convento, come di forestieri che mi servivano, dispensatore, canovaio, et altri così fatti, e così l'abate Serraglio, il generale don Cipriano da Verona et il Bentivoglio. Parimente ritrassi il naturale ne' vestimenti di quel Pontefice, contrafacendo velluti, damaschi et altri drappi d'oro e di seta d'ogni sorte. L'apparecchio poi, vasi, animali et altre cose feci fare a Cristofano dal Borgo, come si disse nella sua vita. Nella seconda storia cercai fare di maniera le teste, i panni et i casamenti, oltre all'essere diversi dai primi, che facessino più che si può apparire l'affetto di Cristo nell'instituire Madalena, e l'affezione e prontezza di Marta nell'ordinare il convito e dolersi d'essere lasciata sola dalla sorella in tante fatiche e ministerio; per non dir nulla dell'attenzione degl'Apostoli et altre molte cose da essere considerate in questa pittura. Quanto alla terza storia, dipinsi i tre Angeli (venendomi ciò fatto non so come) in una luce celeste, che mostra partirsi da loro, mentre i raggi d'un sole gli circonda in una nuvola. De' quali tre Angeli il vecchio Abramo adora uno, se bene sono tre quelli che vede, mentre Sarra si sta ridendo e pensando come possa essere quello che gl'è stato promesso, et Agar con Ismael in braccio si parte dall'ospizio. Fa anco la medesima luce chiarezza ai servi che apparecchiano, fra i quali alcuni, che non possono sofferire lo splendore, si mettono le mani sopra gl'occhi e cercano di coprirsi; la quale varietà di cose, perché l'ombre crude et i lumi chiari danno più forza alle pitture, fecero a questa aver più rilievo che l'altre due non hanno, e variando di colore, fecero effetto molto diverso. Ma così avess'io saputo mettere in opera il mio concetto, come sempre con nuove invenzioni e fantasie sono andato, allora e poi, cercando le fatiche et il difficile dell'arte!