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Il che io come giovane feci, come quegli che non pensai se non a servire quel signore, che come ho detto desiderava averla finita per un suo servizio, in quel tempo. E nel vero, se bene io m'affaticai grandemente in far cartoni e studiare quell'opera, io confesso aver fatto errore in metterla poi in mano di garzoni per condurla più presto come mi bisognò fare, perché meglio sarebbe stato aver penato cento mesi et averla fatta di mia mano. Perciò che se bene io non l'avessi fatta in quel modo che arei voluto per servizio del cardinale et onor mio, arei pure avuto quella satisfazione d'averla condotta di mia mano. Ma questo errore fu cagione che io mi risolvei a non far più opere, che non fussero da me stesso del tutto finite sopra la bozza di mano degl'aiuti, fatta con i disegni di mia mano. Si fecero assai pratichi in quest'opera Bizzera e Roviale spagnuoli, che assai vi lavorarono con esso meco, e Batista Bagnacavallo bolognese, Bastian Flori aretino, Giovanpaolo dal Borgo e fra' Salvadore Foschi d'Arezzo, e molti altri miei giovani.

In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattenerlo, con bellissimi et onorati ragionamenti, il Molza, Anibal Caro, Messer Gandolfo, Messer Claudio Tolomei, Messer Romolo Amasseo, monsignor Giovio, et altri molti letterati e galantuomini, de' quali è sempre piena la corte di quel signore, si venne a ragionare una sera fra l'altre del museo del Giovio, e de' ritratti degl'uomini illustri che in quello ha posti con ordine et inscrizioni bellissime. E passando d'una cosa in altra, come si fa ragionando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, et averla ancora, d'aggiugnere al museo et al suo libro degli Elogi un trattato nel quale si ragionasse degl'uomini illustri nell'arte del disegno, stati da Cimabue insino a' tempi nostri. Dintorno a che allargandosi, mostrò certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti, ma è ben vero che bastandogli fare gran fascio, non la guardava così in sottile e spesso, favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l'opere, e non dicea le cose come stavano a punto, ma così alla grossa. Finito che ebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me disse il cardinale: "Che ne dite voi Giorgio, non sarà questa una bell'opera e fatica?". "Bella", rispos'io "monsignor illustrissimo, se il Giovio sarà aiutato da chichesia dell'arte a mettere le cose a' luoghi loro, et a dirle come stanno veramente. Parlo così, perciò che, se bene è stato questo suo discorso maraviglioso, ha scambiato e detto molte cose una per un'altra." "Potrete dunque", soggiunse il cardinale pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei e dagl'altri "dargli un sunto voi, et una ordinata notizia di tutti i detti artefici, dell'opere loro secondo l'ordine de' tempi. E così aranno anco da voi questo benefizio le vostre arti." La qual cosa ancor che io conoscessi essere sopra le mie forze, promisi secondo il poter mio di far ben volentieri; e così messomi giù a ricercare miei ricordi, e scritti fatti intorno a ciò, infin da giovanetto, per un certo mio passatempo e per una affezione che io aveva a la memoria de' nostri artefici, ogni notizia de' quali mi era carissima, misi insieme tutto che intorno a ciò mi parve a proposito. E lo portai al Giovio, il quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: "Giorgio mio, voglio che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quel modo che ottimamente veggio saprete fare, perciò che a me non dà il cuore, non conoscendo le maniere, né sapendo molti particolari che potrete sapere voi, sanza che quando pure io facessi, farei il più più un trattatetto simile a quello di Plinio; fate quel ch'io vi dico, Vasari, perché veggio che è per riuscirvi bellissimo, ché saggio dato me ne avete in questa narrazione". Ma parendogli che io a ciò fare non fussi molto risoluto me lo fé dire al Caro, al Molza, al Tolomei et altri miei amicissimi; per che risolutomi finalmente, vi misi mano con intenzione, finita che fusse, di darla a uno di loro, che rivedutola et acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che il mio.

Intanto partito di Roma l'anno 1546 del mese d'ottobre, e venuto a Fiorenza, feci alle monache del famoso monasterio delle Murate, in tavola a olio, un Cenacolo per lo loro refettorio, la quale opera mi fu fatta fare e pagata da papa Paulo Terzo, che aveva monaca in detto monasterio una sua cognata, stata contessa di Pitigliano. E dopo feci in un'altra tavola la Nostra Donna che ha Cristo fanciullo in collo, il quale sposa Santa Caterina vergine e martire, e due altri Santi; la qual tavola mi fece fare Messer Tomaso Cambi per una sua sorella allora badessa nel monasterio del Bigallo fuor di Fiorenza. E quella finita feci a monsignor de' Rossi de' conti di San Secondo e vescovo di Pavia due quadri grandi a olio: in uno è San Ieronimo e nell'altro una Pietà, i quali amendue furono mandati in Francia. L'anno poi 1547, fini' del tutto per lo Duomo di Pisa, ad instanza di Messer Bastiano della Seta Operaio, un'altra tavola che aveva cominciata; e dopo a Simon Corsi mio amicissimo un quadro grande a olio d'una Madonna.

Ora, mentre che io faceva quest'opere, avendo condotto a buon termine il libro delle vite degl'artefici del disegno, non mi restava quasi altro a fare che farlo trascrivere in buona forma, quando a tempo mi venne alle mani don Gian Matteo Faetani da Rimini, monaco di Monte Oliveto, persona di lettere e d'ingegno, perché io gli facessi alcun'opere nella chiesa e monasterio di Santa Maria di Scolca d'Arimini, là dove egli era abate. Costui dunque, avendomi promesso di farlami trascrivere a un suo monaco eccellente scrittore e di correggerla egli stesso, mi tirò ad Arimini a fare, per questa comodità, la tavola et altar maggiore di detta chiesa, che è lontana dalla città circa tre miglia. Nella qual tavola feci i Magi che adorano Cristo, con una infinità di figure da me condotte in quel luogo soletario con molto studio, imitando quanto io potei gl'uomini delle corti di tre re, mescolati insieme, ma in modo però che si conosce all'arie de' volti di che regione e soggetto a qual re sia ciascuno. Conciò sia, che alcuni hanno le carnagioni bianche, i secondi bigie, et altri nere, oltre che la diversità delli abiti e varie portature fa vaghezza e distinzione. È messa la detta tavola in mezzo da due gran quadri, nei quali è il resto della corte, cavalli, liofanti e giraffe, e per la cappella in varii luoghi sparsi Profeti, Sibille, Evangelisti in atto di scrivere. Nella cupola o vero tribuna feci quattro gran figure, che trattano delle lodi di Cristo, e della sua stirpe, e della Vergine, e questi sono Orfeo et Omero con alcuni motti greci, Vergilio col motto: "Iam redit et Virgo", etc. e Dante con questi versi: