Fu sotterrato in S. Maria del Fiore dalla banda sinistra entrando in chiesa, dove è un matton di marmo bianco per memoria di tanto uomo. E come si disse nella vita di Cimabue, un comentator di Dante, che fu nel tempo che Giotto viveva, disse: "Fu et è Giotto tra i pittori il più sommo della medesima città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Fiorenza, Padoa, e in molte altre parti del mondo".
I discepoli suoi furono Taddeo Gaddi, stato tenuto da lui a battesimo, come s'è detto, e Puccio Capanna fiorentino, che in Rimini nella chiesa di S. Cataldo de' frati Predicatori dipinse perfettamente in fresco un voto d'una nave che pare che affoghi nel mare, con uomini che gettano robbe nell'acqua, de' quali è uno esso Puccio, ritratto di naturale, fra un buon numero di marinari. Dipinse il medesimo in Ascesi nella chiesa di S. Francesco molte opere dopo la morte di Giotto, et in Fiorenza nella chiesa di S. Trinita, fece allato alla porta del fianco verso il fiume la cappella degli Strozzi, dove è in fresco la coronazione della Madonna con un coro d'Angeli, che tirano assai alla maniera di Giotto; e dalle bande sono storie di S. Lucia molto ben lavorate. Nella Badia di Firenze dipinse la cappella di S. Giovanni Evangelista della famiglia de' Covoni allato alla sagrestia. Et in Pistoia fece a fresco la cappella maggiore della chiesa di S. Francesco, e la cappella di S. Lodovico, con le storie loro, che sono ragionevoli. Nel mezzo della chiesa di S. Domenico della medesima città è un Crucifisso, una Madonna, et un S. Giovanni con molta dolcezza lavorati, e ai piedi un'ossatura di morto intera, nella quale, che fu cosa inusitata in que' tempi, mostrò Puccio aver tentato di vedere i fondamenti dell'arte; in questa opera si legge il suo nome fatto da lui stesso in questo modo: PUCCIO DI FIORENZA ME FECE; e di sua mano ancora in detta chiesa sopra la porta di S. Maria Nuova nell'arco, tre mezze figure, la Nostra Donna col Figliuolo in braccio e S. Piero da una banda e dall'altra S. Francesco.
Dipinse ancora nella già detta città d'Ascesi, nella chiesa di sotto S. Francesco, alcune storie della Passione di Gesù Cristo in fresco con buona pratica e molto risoluta, e nella cappella della chiesa di S. Maria degl'Angeli, lavorata a fresco, un Cristo in gloria con la Vergine che lo priega pel popolo cristiano, la quale opera, che è assai buona, è tutta affumicata dalle lampane e dalla cera che in gran copia vi si arde continuamente. E di vero, per quello che si può giudicare, avendo Puccio la maniera e tutto il modo di fare di Giotto suo maestro, egli se ne seppe servire assai nell'opere che fece, ancor che, come vogliono alcuni, egli non vivesse molto, essendosi infermato e morto per troppo lavorare in fresco. È di sua mano, per quello che si conosce, nella medesima chiesa la cappella di S. Martino e le storie di quel Santo lavorate in fresco per lo cardinal Gentile. Vedesi ancora a mezza la strada nominata Portica un Cristo alla colonna, ed in un quadro la Nostra Donna e S. Caterina e S. Chiara che la mettono in mezzo.
Sono sparte in molti altri luoghi opere di costui, come in Bologna una tavola nel tramezzo della chiesa con la Passione di Cristo e storie di S. Francesco; e insomma altre che si lasciano per brevità. Dirò bene che in Ascesi, dove sono il più dell'opere sue, e dove mi pare che egli aiutasse a Giotto a dipignere, ho trovato che lo tengono per loro cittadino, e che ancora oggi sono in quella città alcuni della famiglia de' Capanni. Onde facilmente si può credere che nascesse in Firenze, avendolo scritto egli, e che fusse discepolo di Giotto, ma che poi togliesse moglie in Ascesi, che quivi avesse figliuoli, e ora vi siano descendenti. Ma perché ciò sapere a punto non importa più che tanto, basta che egli fu buon maestro.
Fu similmente discepolo di Giotto e molto pratico dipintore Ottaviano da Faenza, che in S. Giorgio di Ferrara, luogo de' monaci di Monte Oliveto, dipinse molte cose; et in Faenza, dove egli visse e morì, dipinse nell'arco sopra la porta di S. Francesco una Nostra Donna, e S. Piero e S. Paulo, e molte altre cose in detta sua patria et in Bologna.
Fu anche discepolo di Giotto Pace da Faenza, che stette seco assai e l'aiutò in molte cose; et in Bologna sono di sua mano nella facciata di fuori di S. Giovanni Decollato alcune storie in fresco. Fu questo Pace valente uomo, ma particolarmente in fare figure piccole, come si può insino a oggi veder nella chiesa di S. Francesco di Forlì in un albero di croce e in una tavoletta a tempera, dove è la vita di Cristo e quattro storiette della vita di Nostra Donna, che tutte sono molto ben lavorate. Dicesi che costui lavorò in Ascesi in fresco nella capella di S. Antonio alcune istorie della vita di quel Santo, per un Duca di Spoleti ch'è sotterrato in quel luogo con un suo figliuolo, essendo stati morti in certi sobborghi d'Ascesi combattendo, secondo che si vede in una lunga inscrizione che è nella cassa del detto sepolcro. Nel vecchio libro della Compagnia de' Dipintori si trova essere stato discepolo del medesimo un Francesco detto di maestro Giotto, del quale non so altro ragionare.
Guglielmo da Forlì fu anche egli discepolo di Giotto, et oltre a molte altre opere, fece in S. Domenico di Forlì sua patria la capella dell'altar maggiore. Furono anco discepoli di Giotto, Pietro Laurati, Simon Memmi sanesi, Stefano fiorentino, e Pietro Cavallini romano. Ma perché di tutti questi si ragiona nella vita di ciascun di loro, basti in questo luogo aver detto che furono discepoli di Giotto: il quale disegnò molto bene nel suo tempo, e di quella maniera, come ne fanno fede molte carte pecore disegnate di sua mano di acquerello e profilate di penna, e di chiaro e scuro, e lumeggiate di bianco, le quali sono nel nostro libro de' disegni, e sono, a petto a quelli de' maestri stati innanzi a lui, veramente una maraviglia.
Fu, come si è detto, Giotto ingegnoso e piacevole molto e ne' motti argutissimo, de' quali n'è anco viva memoria in questa città; perché oltre a quello che ne scrisse messer Giovanni Boccaccio, Franco Sacchetti nelle sue trecento Novelle ne racconta molti e bellissimi, de' quali non mi parrà fatica scriverne alcuni con le proprie parole appunto di esso Franco, acciò con la narrazione della novella si vegghino anco alcuni modi di favellare e locuzioni di que' tempi. Dice dunque in una, per mettere la rubrìca:
A Giotto gran dipintore è dato un palvese a dipignere da un uomo di picciol affare. Egli facendosene scherne, lo dipigne per forma che colui rimane confuso.
NOVELLA
"Ciascuno può avere già udito chi fu Giotto, e quando fu gran dipintore sopra ogn'altro. Sentendo la fama sua un grossolano, et avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di far dipignere un suo palvese, subito n'andò alla bottega di Giotto avendo chi gli portava il palvese drieto; e giunto dove trovò Giotto, disse: "Dio ti salvi, maestro: io vorrei che mi dipignessi l'arme mia in questo palvese". Giotto considerando e l'uomo e 'l modo, non disse altro se non: "Quando il vuo' tu?" e quel glielo disse. Disse Giotto: "Lascia far me". E partissi. E Giotto essendo rimaso, pensa fra se medesimo: "Che vuol dir questo? sarebbemi stato mandato costui per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere. E costui che 'l reca è un omiciatto semplice, e dice ch'io gli facci l'arme sua, come se fosse de' Reali di Francia. Per certo io gli debbo fare una nuova arme". E così pensando fra se medesimo, si recò inanzi il detto palvese, e disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla dipintura; e così fece. La quale dipintura fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello, et una lancia.
Giunto il valente uomo, che non sapea chi si fusse, fassi innanzi e dice: "Maestro, è dipinto quel palvese?". Disse Giotto: "Sì bene: va, recalo giù". Venuto il palvese, e quel gentiluomo per procuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto: "Oh che imbratto è questo che tu m'hai dipinto?". Disse Giotto: "E' ti parrà ben imbratto al pagare". Disse quegli: "Io non ne pagherei quattro danari". Disse Giotto: "E che mi dicestù ch'io dipignessi?". E quel rispose: "L'arme mia". Disse Giotto: "Non è ella qui? mancacene niuna?". Disse costui: "Ben istà". Disse Giotto: "Anzi sta male, che Dio ti dia, e déi essere una gran bestia, che chi ti dicesse, 'chi se' tu', appena lo sapresti dire; e giugni qui, e di': 'dipignimi l'arme mia'. Se tu fussi stato de' Bardi, sarebbe basto. Che arme porti tu? di qua' se' tu? chi furono gl'antichi tuoi? Deh, che non ti vergogni? Comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d'arma, come stu fussi Dusnan di Baviera. Io t'ho fatta tutta armadura sul tuo palvese: se ce n'è più alcuna, dillo, et io la farò dipignere". Disse quello: "Tu mi di' villania, e m'hai guasto un palvese". E partesi, e vassene alla Grascia, e fa richieder Giotto. Giotto compare, e fa richieder lui, adomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni, gli ufficiali, ché molto meglio le dicea Giotto, giudicarono che colui si togliesse il palvese suo così dipinto, e desse lire sei a Giotto, però che gl'aveva ragione. Onde convenne togliesse il palvese e pagasse, e fu prosciolto.