Così costui, non misurandosi, fu misurato."
Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta, in sul naso d'una figura che esso Cimabue avea fatta, una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d'una volta a cacciarla con mano, pensando che fusse vera, prima che s'accorgesse dell'errore. Potrei molte altre burle fatte da Giotto e molte argute risposte raccontare, ma voglio che queste, le quali sono di cose pertinenti all'arte, mi basti avere detto in questo luogo, rimettendo il resto al detto Franco et altri.
Finalmente, perché restò memoria di Giotto non pure nell'opere che uscirono delle sue mani, ma in quelle ancora che uscirono di mano degli scrittori di que' tempi, essendo egli stato quello che ritrovò il vero modo di dipignere, stato perduto inanzi a lui molti anni, onde per publico decreto, e per opera et affezzione particolare del Magnifico Lorenzo vecchio de' Medici, ammirate le virtù di tanto uomo, fu posta in S. Maria del Fiore l'effigie sua scolpita di marmo da Benedetto da Maiano scultore eccellente, con gl'infrascritti versi fatti dal divino uomo messer Angelo Poliziano, acciò che quelli che venissero eccellenti in qualsivoglia professione, potessero sperare d'avere a conseguire da altri di queste memorie, che meritò e conseguì Giotto dalla bontà sua largamente:
Ille ego sum, per quem pictura extinta revixit,
cui quam recta manus, tam fuit et facilis.
Naturae deerat nostrae quod defuit arti:
plus licuit nulli pingere, nec melius.
Miraris turrim egregiam sacro aere sonantem?
Haee quoque de modulo crevit ad astra meo.
Denique sum Jottus, quid opus fuit illa referre?
Hoc nomen longi carminis instar erit.
E perché possino coloro che verranno vedere dei disegni di man propria di Giotto, e da quelli conoscere maggiormente l'eccellenza di tanto uomo, nel nostro già detto libro ne sono alcuni maravigliosi, stati da me ritrovati con non minore diligenza che fatica e spesa.
FINE DELLA VITA DI GIOTTO
VITA DI AGOSTINO ET AGNOLO SCULTORI ET ARCHITETTI SANESI
Fra gl'altri che nella scuola di Giovanni e Nicola scultori pisani si esercitarono, Agostino et Agnolo scultori sanesi, de' quali al presente scriviamo la vita, riuscirono secondo que' tempi eccellentissimi. Questi, secondo che io trovo, nacquero di padre e madre sanesi, e gli antenati loro furono architetti: conciò sia che l'anno 1190 sotto il reggimento de' tre Consoli, fusse da loro condotta a perfezzione Fontebranda, e poi l'anno seguente, sotto il medesimo consolato, la Dogana di quella città et altre fabriche. E nel vero si vede che i semi della virtù, molte volte, nelle case dove sono stati per alcun tempo, germogliano e fanno rampolli, che poi producono maggiori e migliori frutti, che le prime piante fatto non avevano.
Agostino, dunque, et Agnolo aggiugnendo molto miglioramento alla maniera di Giovanni e Nicola Pisani, arricchirono l'arte di miglior disegno et invenzione, come l'opere loro chiaramente ne dimostrano.
Dicesi che tornando Giovanni sopra detto da Napoli a Pisa l'anno 1284, si fermò in Siena a fare il disegno e fondare la facciata del Duomo, dinanzi dove sono le tre porte principali, perché si adornasse tutta di marmi riccamente; e che allora non avendo più che quindici anni, andò a star seco Agostino per attendere alla scultura, della quale aveva imparato i primi principii, essendo a quell'arte non meno inclinato, che alle cose d'architettura. E così sotto la disciplina di Giovanni, mediante un continuo studio, trapassò in disegno, grazia e maniera tutti i condiscepoli suoi, intanto che si diceva per ognuno che egli era l'occhio diritto del suo maestro. E perché nelle persone che si amano si disiderano, sopra tutti gli altri beni o di natura o d'animo o di fortuna, la virtù che sola rende gli uomini grandi e nobili, e, più, in questa vita e nell'altra felicissimi, tirò Agostino, con questa occasione di Giovanni, Agnolo suo fratello minore al medesimo esercizio. Né gli fu il ciò fare molta fatica; perché il praticar d'Agnolo con Agostino e con gli altri scultori, gl'aveva di già, vedendo l'onore e utili che traevano di cotal arte, l'animo acceso d'estrema voglia e disiderio d'attendere alla scultura: anzi prima che Agostino a ciò avesse pensato, aveva fatto Agnolo nascosamente alcune cose.
Trovandosi dunque Agostino a lavorare con Giovanni la tavola di marmo dell'altar maggiore del Vescovado d'Arezzo, della quale si è favellato di sopra, fece tanto, che vi condusse il detto Agnolo suo fratello, il quale si portò di maniera in quell'opera, che finita ch'ella fu, si trovò avere nell'eccellenza dell'arte raggiunto Agostino. La qual cosa conosciuta da Giovanni, fu cagione che dopo questa opera si servì dell'uno e dell'altro in molti altri suoi lavori, che fece in Pistoia, in Pisa, et in altri luoghi. E perché attesero non solamente alla scultura ma all'architettura ancora, non passò molto tempo che reggendo in Siena i Nove, fece Agostino il disegno del loro palazzo in Malborghetto, che fu l'anno 1308. Nel che fare si acquistò tanto nome nella patria, che, ritornati in Siena dopo la morte di Giovanni, furono l'uno e l'altro fatti architetti del publico; onde poi l'anno 1317 fu fatta per loro ordine la facciata del Duomo che è volta a settentrione, e l'anno 1321, col disegno de' medesimi, si cominciò a murare la porta Romana in quel modo che ell'è oggi, e fu finita l'anno 1326; la qual porta si chiamava prima porta S. Martino. Rifeciono anco la porta a Tufi, che prima si chiamava la porta di S. Agata all'arco.
Il medesimo anno fu cominciata col disegno degli stessi Agostino et Agnolo la chiesa e convento di S. Francesco, intervenendovi il cardinale di Gaeta legato apostolico. Né molto dopo per mezzo d'alcuni de' Tolomei, che come esuli si stavano a Orvieto, furono chiamati Agostino et Agnolo a fare alcune sculture per l'opera di S. Maria di quella città. Per che andati là, fecero di scultura in marmo alcuni profeti, che sono oggi, fra l'altre opere di quella facciata, le migliori e più proporzionate di quell'opera tanto nominata.
Ora, avvenne l'anno 1326, come si è detto nella sua vita, che Giotto fu chiamato per mezzo di Carlo duca di Calavria, che allora dimorava in Fiorenza, a Napoli, per fare al re Ruberto alcune cose in S. Chiara et altri luoghi di quella città: onde passando Giotto nell'andar là da Orvieto per veder l'opere, che da tanti uomini vi si erano fatte e facevano tuttavia, che egli volle veder minutamente ogni cosa. E perché più che tutte l'altre sculture gli piacquero i profeti d'Agostino e d'Agnolo sanesi, di qui venne che Giotto non solamente gli commendò, e gli ebbe con molto loro contento nel numero degli amici suoi, ma che ancora gli mise per le mani a Piero Saccone da Pietramala, come migliori di quanti allora fussero scultori, per fare, come si è detto nella vita d'esso Giotto, la sepoltura del vescovo Guido, signore e vescovo d'Arezzo. E così, adunque, avendo Giotto veduto in Orvieto l'opere di molti scultori, e giudicate le migliori quelle d'Agostino et Agnolo sanesi, fu cagione che fu loro data a fare la detta sepoltura, in quel modo però che egli l'aveva disegnata, e secondo il modello che esso aveva al detto Piero Saccone mandato.