Lei me lo canticchiò sull’aria che suonava: — Ordina un po’ di champagne… Oppure tira via il copriletto… o se vuoi, se proprio vuoi farlo… comincia a spogliarti, mio caro.
La baciai sul collo. — Opto per il suggerimento numero tre — dissi. Ma non andai a spogliarmi. Una delle cosette che avevo imparato con Nyla era che mi divertivo molto di più quando lo facevamo insieme. Tornai in soggiorno… no, credo che gli si sarebbe adattato un nome più classico, il salone, forse. Sapevo che i suoi «due minuti» erano almeno quindici o venti. Quando è in tournée, l’assillo di Nyla è di poter dimenticare qualcosa d’importante: come eseguire un certo passaggio, quante volte far vibrare la corda col mignolo su una certa nota. Di conseguenza si esercita eseguendo il pezzo da cima a fondo, il che richiede tempo. Sedetti di nuovo nella grossa poltrona e allungai una mano al telefono.
Mentre aspettavo che il mio ufficio rispondesse mi guardai attorno. Era dolce pensare che non sarei stato io a mettere il conto di quell’albergo sul mio conto spese. Alla gente che pagava le tasse non sarebbe piaciuto. E non sarebbe stato comprensivo neppure l’IRS, se un normale essere umano avesse dichiarato che una suite di quattro camere era una spesa di lavoro inevitabile. Ma quello era uno dei lati positivi d’essere una concertista. Nyla affermava sempre d’aver bisogno di locali spaziosi e risonanti in cui esercitarsi prima di un concerto. Probabilmente aveva ragione. Comunque non s’era mai sentita rivolgere domande imbarazzanti da un revisore di conti dell’IRS, lei, visto che i suoi appartamenti in albergo erano prenotati e pagati dall’amministrazione dei teatri in cui si esibiva. E quella voce non appariva neppure fra le detrazioni dai suoi introiti.
Quando il mio ufficio rispose, chiesi di Jock McClenny. Lui riconosceva la mia voce, naturalmente, così dissi subito: — Sono al solito posto, Jock. C’è nulla di urgente?
— No, senatore, niente. Vi darò un colpetto di telefono, se sarà il caso.
— Bene — dissi. Sapevo che avrebbe chiamato solo se fosse stato indispensabile, e sapevo anche che difficilmente sarebbe capitato qualcosa di abbastanza importante da convincere Jock a chiamarmi all’albergo di Nyla. Ma il modo in cui lo sentii schiarirsi la gola m’impedì di metter giù il ricevitore. — Che c’è, Jock? — domandai.
— Be’, si tratta solo di un messaggio che ho avuto dal Pentagono, senatore. È abbastanza peculiare. Pare che da Sandia abbiano chiamato il Pentagono per avere conferma che voi foste giù da loro.
— Da loro? — brontolai, stupito. Sandia è un’installazione di ricerca nel New Mexico. — Come posso essere da loro, se sono qui?
— Appunto, senatore — disse, e mi parve quasi di vederlo mentre annuiva con un sorrisetto, compiaciuto dell’ironia della cosa. O meglio, compiaciuto davanti all’ottusità dei militari, perché Jock gongola quando coglie quelli del Pentagono a impantanarsi entro le goffaggini della routine. Specie per quanto riguarda le loro cervellotiche misure di sicurezza.
La faccenda, a dire il vero, divertiva anche me. Mi sarebbe piaciuto approfondire l’argomento, ma la musica del violino nella stanza accanto s’era interrotta.
— Vedi cosa puoi capirne — gli ordinai. — Ti richiamo più tardi.
— D’accordo, senatore — concluse, senza celare quello che identificai come un sospiro d’invidia. Non potevo biasimarlo. Nyla è una ragazza decisamente bella, tanto da giustificare l’invidia di chiunque, ma nel caso di Jock la bellezza non c’entrava: era un maniaco della musica classica, e non s’era perso uno solo dei concerti di Nyla. Talvolta, seduto nel palco che lei faceva riservare apposta per me, mi accadeva di guardare giù in platea e lo vedevo là, magari in ventesima fila, che la fissava con rapita e incrollabile venerazione.
Quando riaprii la porta della camera da letto mi chiesi come l’avrebbe fissata, se l’avesse vista come la vedevo io in quel momento: ondeggiava sui fianchi per tirarsi giù la gonnella stretta, l’unica cosa che avesse ancora indosso, col Guarnerius deposto lì accanto nell’astuccio. I suoi occhi ebbero un lampo arrogante. — Non ti sei ancora tolto neppure la cravatta — mi accusò.
— A questo si può sempre trovare un rimedio — dissi, cominciando a dimostrarle che il rimedio c’era, e molto veloce anche.
Nel corso normale degli eventi non è molto probabile che un uomo sposato, nella mia posizione, arrivi ad avere una relazione con una donna sposata come Nyla Christophe Bowquist. I nostri rispettivi mondi non si intersecavano affatto. Io ero un fisico fallito che s’era dedicato alla legge e poi alla politica. Nyla era una creatura del tutto particolare. Era cresciuta pazza e selvaggia — diceva questo, di se stessa — e se non avesse casualmente deciso di presentarsi a un’audizione, alla Juilliard School, con ogni probabilità sarebbe finita in galera. O in un posto ancora peggiore.
Invece era diventata «NYLA CHRISTOPHE BOWQUIST», una VIP della musica, con un marito nel ramo investimenti bancari e un lussuoso attico sulla Lake Shore Drive. Mentre io avevo un appartamento in un condominio a Marine e una moglie ambiziosa. Se Marilyn, mia moglie, avesse potuto fare a suo modo, sarei diventato Presidente. Se io avessi saputo fare a mio modo forse sarei già diventato Presidente, ma con una diversa First Lady. Trovavo ironico che fosse stata la sua stessa ambizione a spingermi ad entrare nel Chicago Arts Council, cosa che, secondo lei, avrebbe migliorato la mia immagine pubblica. Era stato là che avevo conosciuto Nyla. Un mercoledì ci eravamo trovati seduti accanto, durante un pranzo per una raccolta di fondi. Il venerdì mattina avevamo partecipato a uno show radiofonico di Radio Terkel. Il venerdì sera eravamo a letto insieme. Reazione chimica? Questo è il termine che usano adesso, ma qualunque cosa fosse fra noi aveva funzionato.
Quando infine ci rilassammo, esausti, sul disordine dei cuscini fumando quella che è la sigaretta dal sapore migliore, notai lo sguardo distante che aveva negli occhi e chiesi: — A cosa stai pensando?
— A noi — disse.
— Anch’io. — Sporsi il braccio sopra di lei per raggiungere il portacenere, senza tralasciare di sfiorarle i seni, e quando vidi che si eccitava ancora prolungai quel giochetto. Poi aggiunsi: — Pensavo a come avrebbero potuto andare le cose se ci fossimo incontrati in un altro modo.
— O in un altro tempo — annuì lei.
Anch’io feci cenno di sì. — Per esempio se ci fossimo conosciuti prima che tu sposassi Fred… o io Marilyn. Se fosse stato un caso a farci incontrare, quando eravamo ancora liberi. Che ne pensi?
— Di cosa, Dom? — chiese lei, premendo il mozzicone nel portacenere.
— Credi che ci saremmo sposati, tu ed io? — volli sapere.
Lei si volse e per un po’ tacque, sfiorandomi amichevolmente un orecchio con la punta della lingua. Poi disse: — È ovvio, no? — Anche se in quell’ipotesi non c’era niente di ovvio. Non avevamo molto in comune, a parte quel che provavamo a letto. Io continuavo a non capire nulla di musica (non andavo più in là della musica country e di quella dei western) e Nyla non nascondeva di detestare buona parte della mia vita politica. Ciò malgrado, se avessimo desiderato sposarci non avremmo avuto gravi problemi di divorzio da affrontare. Né io né lei avevamo figli, non dipendevamo finanziariamente dal coniuge, e agli elettori non importa come si può credere della vita maritale di un senatore. Se divorziare e risposarvi potesse tenervi lontano dalle cariche pubbliche, adesso Reagan non sarebbe Presidente.
No, quel che ci tratteneva dall’idea di sposarci era che nessuno di noi due voleva correre il rischio. Fu per questo che Nyla ripeté — È ovvio — in tono fermo, e poi si alzò. — Adesso bisogna che cominci a pensare a cosa dovrò indossare. Mi raggiungi nel bagno?
— È ovvio — dissi, e le andai dietro. «È ovvio» era una cosa che ci dicevamo spesso, per spazzar via i dubbi su tutto ciò che non era ovvio per niente. Nell’acqua ridacchiammo e facemmo quei giochetti che a tutti piace fare in una vasca da bagno; ma non durò a lungo perché, proprio quando stavamo terminando d’insaponarci a vicenda con reciproca soddisfazione, il telefono del bagno ci distrasse.