Выбрать главу

Detestai la situazione all’istante.

Era mille volte peggio che guardarsi in uno specchio a tre ante. E il disagio fu tale che mi colse impreparato.

Costui aveva la mia faccia, i capelli del mio identico colore, perfino la stessa sfoltitura sulla sommità del cranio. Ogni particolare. O meglio quasi ogni particolare, perché c’erano lievi differenze: doveva avere due o tre chili meno di me, e indossava un abito che non somigliava per nulla ai miei. Era una sorta di tuta a un pezzo, di una stoffa lucida color verde scuro, con parecchie tasche sul torace e altre, suddivise in sezioni, sui lati dei pantaloni. Aveva tasche perfino sulle maniche e lungo la gamba destra. Forse avevano contenuto documenti e oggetti dell’altro me stesso, ma in quel momento erano vuote. Senza dubbio gli uomini del colonnello lo avevano rivoltato come un guanto.

Feci lo sforzo di dire: — Dominic, guardami.

Silenzio. L’altro Dominic non rispose, non alzò gli occhi e non fece nulla, anche se una lievissima inclinazione della testa m’informò che aveva sentito benissimo. Nessun altro nel locale aveva aperto bocca. Il colonnello stava zitto e attento, e quando il colonnello Martineau stava zitto e attento i suoi uomini facevano lo stesso.

Ci provai di nuovo: — Dominic! Per amor di Dio, dimmi cosa sta succedendo!

L’altro io tenne lo sguardo sul pavimento ancora per un poco. Poi lo rialzò, ma non verso di me. Sorvolano la testa di Martineau, fissò sull’orologio appeso alla parete, come se facesse un calcolo. Finalmente si volse a me e parlò: — Dominic — disse. — Per amor di Dio, non posso dirtelo.

Non era una risposta soddisfacente. Il colonnello Martineau fece per dire qualcosa ma lo azzittii con un gesto. — Per favore — chiesi.

L’altro me stesso ebbe una smorfia rammaricata. — Be’, Dom, vecchio mio, a esser franco il motivo per cui sono qui è che volevo dirti una cosa. A te — precisò. — E per «te» non intendo la seconda persona singolare o altre persone estranee a me stesso. Intendo te-Dominic-DeSota, che come sai bene, sei me.

Il colonnello aveva stretto i denti con ferocia, ma non lo lasciai parlare. — Ah, Dom! — dissi, tristemente. — Giochi di questo genere m’ero augurato di non doverli giocare mai. Ma, a parte la cosa in se stessa, perché non vuoi parlarmene?

— Perché è troppo tardi, Dom — disse.

— Troppo tardi, santo cielo, per cosa?

— La cosa di cui intendevo avvertirti. Non lo sai?

— Io non so niente!

— Ma dovresti. Sta accadendo. E la prossima volta che ci incontreremo, tu ed io… — ebbe la smorfia di un sorriso, quasi addolorato. — Non saremo tu ed io a incontrarci. — Tacque, parve sul punto di parlare ancora, esitò, gettò uno sguardo all’orologio…

E in quell’istante scomparve.

Quando dico «scomparve» uso il termine alla lettera, ma non vorrei dare un’immagine sbagliata. L’altro Dominic DeSota non «scomparve» dietro qualcosa o fuori dalla porta. Non divenne sempre più trasparente come un attore in uno show di fantascienza alla TV. Scomparve veramente. Un momento prima era lì. Un momento dopo non c’era più.

E le manette, chiuse ormai soltanto intorno all’aria, caddero sul pavimento dove lui aveva poggiato i piedi.

Cose del genere non fanno parte della vita di un normale essere umano. Non disponevo di alcuna reazione psichica già bell’e pronta, per fronteggiare una flagrante violazione delle leggi naturali, e lo stesso poteva dirsi per il colonnello Martineau. Lui mi fissò. Io lo fissai.

Nessuno commentò quella sparizione, a meno che «Merda-santa!» non si possa chiamare un commento. Mi parve che quel sussurro fosse uscito dai denti del colonnello.

— Hai un’idea di quel che stava dicendo, colonnello? — chiesi, tanto per esser sicuro. — No? Già, penso di no. Bene. Adesso cosa facciamo?

— All’inferno se lo so, senatore! — ringhiò. Ma per quanto a un ufficiale in comando sia permesso dire una cosa simile, non gli è permesso «non sapere» cosa fare. Abbaiò un ordine al sergente, istruendolo sul fatto che l’altro me stesso andava immediatamente ricercato. Il sergente esibì un’espressione confusa, visto che né noi né lui vedevamo minimamente l’utilità della cosa, e il colonnello sospirò rassegnato. — Si dia da fare, sergente — disse, e lo seguì con gli occhi mentre usciva. Poi si girò verso di me. — Be’, un elemento lo abbiamo. Ha detto che, qualunque cosa sia, sta già accadendo. Perciò non ci vorrà molto per scoprire di che razza di faccenda si tratta.

— Mi auguro che non sia nulla di spiacevole — borbottai.

Ma quando la cosa accadde, dieci minuti più tardi, fu chiaro che non era piacevole in nessun modo possibile. Eravamo usciti dall’ufficio, incamminandoci nel corridoio con alle calcagna il piccolo distaccamento di truppe del colonnello a passo di marcia, tutti con le divise estive e tutti chiedendosi dove poteva esser finito il prigioniero. E fuori dall’edificio vedemmo venire verso di noi un altro gruppo di militari, all’incirca una dozzina. Anche loro marciavano al passo, ma non portavano uniformi estive: quelle che avevano addosso erano tute da combattimento, e appese alla spalla avevano stranissime carabine a canna corta, d’aspetto micidiale.

— Stop! — latrò un graduato quando furono a una decina di metri da noi. Il drappello si schierò orizzontalmente. Gli uomini misero un ginocchio a terra e imbracciarono le carabine, puntandole dritte su di noi.

Un ufficiale lasciò il distaccamento e si fece avanti. — Merdasanta! — ansimò ancora il colonnello Martineau, e non ebbi bisogno di chiedergli il perché.

L’uomo indossava la stessa tenuta da combattimento degli altri, ma si poteva ipotizzare che fosse un ufficiale perché impugnava una pistola invece della carabina. E c’era qualcos’altro che avrei potuto dire di lui se ne avessi avuto il fiato. Comunque lo confermò quando aprì bocca. — Sono il Maggiore Dominic DeSota, dell’Esercito degli Stati Uniti — disse, con una voce che conoscevo fin troppo bene. — E voi siete miei prigionieri di guerra.

Quelle parole furono scandite con chiarezza, ma nella sua voce c’era una nota un po’ stranita. Sapevo perché. L’intimazione era indirizzata al colonnello, mentre gli occhi dell’uomo erano inchiodati su di me, e anche quell’espressione m’era familiare. Era l’espressione che avevo anch’io. Dissi: — Salve, me stesso. — Lo vidi accigliarsi. — Credevo che tu fossi scomparso. Di che si trattava, allora? Era tutto uno scherzo?

Lui fece un cenno col capo a uno dei soldati, che corse avanti e mi agguantò per le braccia unendomele a viva forza dietro la schiena. Sentii una morsa fredda attorno ai polsi e compresi d’esser stato ammanettato. — Non capisco cosa tu voglia dire con «scomparso» — esclamò l’altro me stesso. — Ma questo non è uno scherzo. Consideratevi tutti sotto custodia protettiva.

— A che scopo? — sbottò il colonnello, porgendo malvolentieri i polsi alle manette.

— Soltanto finché non avremo chiarito le cose col vostro governo — ci rassicurò l’altro me stesso. — Vogliamo spiegare loro cosa devono fare, e voi rimarrete nostri prigionieri fino al momento in cui si dichiareranno d’accordo. Vi conviene star calmi. Se la cosa non vi piace, ovviamente, avete sempre un’altra scelta: fare resistenza. Dopodiché non sarete più prigionieri, sarete soltanto dei cadaveri.

Il conduttore di macchine agricole seduto nella cabina a vetri del suo grosso raccoglitore meccanico diminuì la velocità, per consentire ai supporti rotanti di far presa sui filari di fagioli fra cui stava procedendo. Le sue riflessioni non andavano oltre la partita dei Sox alla TV, che s’era perso. Stava pensando che avrebbe volentieri fatto pausa per bere una birra quando udì, giusto alle sue spalle, il rumore di un veicolo in avvicinamento rapido ed il sibilo allarmante di freni idraulici. Si volse di scatto e con la coda dell’occhio vide un poderoso autotreno con rimorchio che gli stava arrivando addosso. Freneticamente girò il volante del raccoglitore, devastando e schiacciando una dozzina di filari. Ma quando tornò a girarsi dietro di lui non c’era niente.