Mi seccava molto essere proprio nella città di Dom senza che lui fosse lì, del resto avevo fin troppo con cui tenermi occupata. Preparare un concerto è una cosa che non lascia tempo libero a nessuno. C’erano le interviste con la stampa. C’erano i cocktail prima della serata, affollati dai finanziatori della National Simphony Orchestra. E soprattutto c’erano le prove. Dieci minuti di prove con l’orchestra mi costavano invariabilmente un’ora per mandare a mente i tempi, i tagli, i toni e le modifiche su cui ci eravamo accordati. Si potrebbe pensare che per me sia più facile provare con Mstislav Rostropovich che con altri, visto che Slavi ha cominciato anche lui come violinista. Neppure per sogno. È pignolo fino all’esasperazione. Capace di far fremere di nervosismo tutti quanti mettendosi a spiegare la dinamica delle onde sonore a un suonatore di controfagotto, o illustrando l’esatto numero di microsecondi in cui una nota dev’essere sincopata. Non voglio dire che non mi piaccia lavorare con lui. Ha un delizioso senso dell’umorismo, per dirne una. Come uomo lo trovo adorabile.
Non perde occasione di scherzare con me, in modo gentile. Ad esempio, giorni addietro, dopo che gli avevo rimandato firmato il contratto per quel concerto, il suo segretario mi richiamò e disse: — Slavi m’incarica d’informarla che ha una scelta, Nyla: Sibelius o Mendelssohn. Quale dei due? — Ero stata costretta a ridere.
Era quel genere di battute che vi sentite dire per un po’, dopo un certo fatto, tanto per scherzare. E aveva una storia. La prima volta che avevo suonato con la National Simphony, alla conferenza stampa una giornalista mi aveva colto con la guardia abbassata. Suppongo che fossi stanca. Comunque avevo detto una cosa di cui solitamente i violinisti non parlano, ma che è nota a chiunque abbia suonato il violino nei teatri da Paganini in poi. Ci sono pezzi di musica che strappano l’applauso perché sembrano richiedere più virtuosismo di quanto non sia in realtà, come quelli di Mendelssohn. E altri che, apparentemente facili, sono dei veri test di abilità, come quelli di Sibelius. Così avevo detto alla donna che quando volevo compiacere un pubblico non sofisticato suonavo Mendelssohn, mentre se mi esibivo per dei colleghi o degli intenditori affrontavo Sibelius.
— Dica a Slavi che c’inchineremo a Mendelssohn — avevo risposto al segretario, sogghignando fra me. E la mia non era solo una battuta, perché sapevo che genere di pubblico ci aspettava. Così non ero stata sorpresa, due giorni dopo, nel vedermi recapitare un cesto di fiori mandato da Rostropovich, nel quale c’era un bigliettino di sua moglie Elena: «Non solo piena di talento, non solo bella, ma anche capace di annusare il vento! Slavi ti manda i suoi complimenti e ti suggerisce di ripassare Gershwin, poiché il Presidente sarà in sala».
Ritelefonai per dirle che ne sarei stata deliziata. E lo ero. Gershwin è uno dei grandi, anche se altrettanto non si può dire dell’unico concerto per violino composto da un americano. Tuttavia sapevo che al Presidente Reagan non piaceva ascoltare musica straniera.
Elena Rostropovich era una donna simpatica, per quanto non sempre capissi i suoi processi mentali. Ad esempio non riuscivo a sapere se era veramente a conoscenza della relazione fra Dom e me. Stavamo molto attenti a evitare pettegolezzi. E lei non me l’aveva mai lasciato comprendere, con una parola o con un pur lievissimo accenno. Restava il fatto che quando ricevevo da lei un invito a un party di qualche importanza, potevo giurare che lo stesso biglietto era stato inviato anche a casa di Dom in Virginia. I miei erano sempre intestati a Mr. e Mrs. Bowquist. Quelli di Dom al Senatore DeSota e Signora. Non importava se i nostri rispettivi coniugi erano a Chicago, dove Ferdie trascorreva buona parte del suo tempo e Marilyn DeSota praticamente tutto. In quel modo Dom poteva prendere alloggio al mio stesso albergo, dopodiché tornavamo a separarci, lui per le sue faccende e io per il concerto. E quella sera alle undici, al party di Elena, ci capitava d’incontrarci «casualmente» e con espressioni di educata e cordiale sorpresa. Infine, con fare casuale, lei suggeriva che essendo ambedue scompagnati Dom mi desse un passaggio in auto.
Proposta che lui accettava infallibilmente.
Quelle sere erano i momenti migliori che Dom e io riuscivamo a strappare all’eternità. Eravamo diventati esperti nell’arte di apparire in pubblico insieme, senza destar sospetti. Più tardi poi, quando eravamo in privato, le probabilità che l’uno o l’altro dei nostri coniugi ci scoprisse sul fatto erano scarsissime. Ma quando la cosa avveniva a Chicago i rischi erano alti. C’era sempre il caso che qualche conoscenza ci vedesse nel momento sbagliato, nell’atrio di un albergo, in un ascensore o nel ristorante dove ci incontravamo. Non che in altre città fossimo più tranquilli. Spesso Dom trovava valide scuse per volare a Boston, o a New York, o dovunque fossi in tournée, ma eravamo sempre in lotta col tempo. Washington era la migliore… o almeno, quella in cui avevamo imparato a barcamenarci meglio.
Malgrado ciò non la potevo definire perfetta. Conoscevamo gente anche a Washington. Un giorno o l’altro agli orecchi di Ferdie o di Marilyn sarebbe arrivata una voce, o avrebbero avuto un sospetto. E da quel momento in poi sarebbe stata solo questione di tempo. Detective privati? Forse. Perché no? I coniugi traditi non usano necessariamente il guanto di velluto.
E allora l’intera faccenda ci sarebbe crollata sulla testa, con tutto un seguito di avvenimenti molto spiacevoli…
Ma ti prego, Dio, non ancora. — Mai! — fu quel che disse con fermezza Dom colpendo con un pugno i cuscini. Erano le due del mattino, il giorno del concerto, e gli avevo appena espresso la mia preoccupazione.
— Prima o poi dovrà accadere, caro — dissi in tono ragionevole.
— No. Non dobbiamo lasciarci scoprire. — Cercò i pantaloni e cominciò a infilarseli, chinandosi a baciarmi. — Possiamo tirare avanti così finché vogliamo. Ma se pure dovessero metterci in piazza…
Lo interruppi prima che dicesse quella cosa, o cercasse di dirla: — Il Presidente Reagan interverrà al concerto — gli comunicai.
— Si? E con questo?… Ah! — borbottò, e abbottonandosi la camicia annuì saggiamente. — Capisco. Ti seccherebbe urtare la sensibilità del Presidente. Ma se non ci facciamo pescare sul fatto, lei non sarà urtata da nulla. E quand’anche fosse, ci resta sempre l’alternativa di…
— No, non ci resta — dissi, prima che finisse la frase con la parola «sposarci». Perché questo era un argomento che rifiutavo di discutere, sempre, col senatore Dominic DeSota. Riuscivo a vivere col pensiero d’essere infedele a un uomo che mi amava. Ma non avrei sopportato l’idea di estrometterlo dalla mia vita pubblicamente, con l’umiliazione che ciò avrebbe significato per lui.
Così non fui per nulla dispiaciuta quando poco più tardi Dom uscì, diretto nel New Mexico: s’era fatto troppo insistente su quella cosa, e io ero ormai a corto di buoni argomenti con cui contrastarlo. E quella sera a teatro, quando aprii il concerto con quel veloce e sincopato «allegro» del primo movimento, la poltrona a lui riservata nel centro della terza fila era vuota.
Ciò che accadde poco dopo fu del tutto inaspettato, e per chiarirlo meglio devo spiegare qualcosa di quel concerto.
Gershwin morì giovane. Erano circa due anni che aveva cominciato a comporre un po’ di musica per violino, quando un taxi lo investì mentre attraversava la 52a Strada. Non si può affermare che avesse molta esperienza allorché scrisse questa partitura di Wonder. Anni addietro aveva dovuto assumere Ferde Grofe per farsi fare le orchestrazioni, tuttavia al tempo in cui compose il concerto per violino s’era impadronito dell’arte. Gli strumenti a fiato in legno e le percussioni erano sfruttati da lui in modo caratteristico, non meno che i temi romantici sul violino.