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— Sono pronti, signore — disse la sergente Sambok.

— Benissimo — le risposi, e la seguii su per le scale fino all’ufficio del capo scienziato, o come lo chiamavano lì. Non avevo tempo da perdere preoccupandomi dei diversi titoli o gradi, grammaticalmente insoliti, della gente con cui avremmo avuto a che fare: il «me stesso» che mi aveva fissato pensosamente, i «noi» che avevamo trovato lì. E non avevo tempo per meravigliarmi di cose che qualche ora addietro mi avrebbero meravigliato molto, vale a dire quelle che erano pur sempre coincidenze curiose fra la vita di questo Dom DeSota e la mia. Le nostre esistenze erano state diverse in un’enorme quantità di particolari. Ciò malgrado entrambi eravamo stati coinvolti in situazioni parallele… e ovviamente non solo «entrambi» noi, visto che c’erano tutti gli altri Dominic DeSota nelle innumerevoli altre linee temporali. I consiglieri tecnici non s’erano sprecati a illustrare particolari di quel genere. Ne ero a conoscenza perché li avevo domandati espressamente. Tutto ciò che avevano in programma di rivelare, a parte una versione per i profani dei loro mumble-mumble matematici, era che noi Dominic DeSota avevamo geni e cromosomi in comune e un’infanzia in comune, su fino al punto in cui le nostre vite s’erano separate, dovunque quel punto fosse. Avevamo visto gli stessi film, letto gli stessi libri, e la nostra personalità s’era dunque sviluppata secondo parametri almeno paralleli.

— Da questa parte, signore — disse la sergente. Oltrepassai la porta che la ragazza mi aveva aperto ed entrai nell’ufficio del direttore della Casa dei Gatti, come quella gente aveva umoristicamente chiamato il loro progetto sugli universi paralleli.

Il sottotenente del Corpo Segnalatori disse: — Sarà in onda fra trenta secondi, maggiore.

— Bene — risposi, e sedetti alla scrivania. Era lucida come il vetro… il capo scienziato doveva essere il classico sussiegoso scaldaseggiole di cui pullulano gli uffici direzionali, senza dubbio. Sul piano c’era soltanto il microfono del Corpo Segnalatori, coi fili che lo collegavano alla trasmittente manovrata dal sottotenente. Tentai i cassetti. Erano chiusi, ma aprirli sarebbe stata questione di un minuto.

— Si rompa una gamba, signore — mi augurò la sergente Sambok, ghignando sotto il suo trucco mimetico, e fui in onda.

— Signore e signori — dissi nel microfono, — qui parla Dominic DeSota. Circostanze di carattere urgente hanno resa necessaria un’azione precauzionale sulle installazioni della Base di Sandia e dintorni. Non c’è niente di cui dobbiate aver timore. Entro un’ora diffonderemo una trasmissione televisiva dalla stazione locale. Tutte le reti private sono invitate a diffonderla in ripresa diretta, e per allora i motivi di questa azione verranno pienamente chiariti.

Mi volsi al sottotenente, e lui si passò un pollice di traverso lungo la gola. Il caporale accanto alla trasmittente abbassò un interruttore e questo fu tutto.

— Ci vediamo più tardi, maggiore — mi ricordò il sottotenente, e seguì i suoi uomini fuori dall’ufficio.

Mi appoggiai indietro, tastando i braccioli di pelle e l’imbottitura. Questa gente si trattava bene. C’erano quadri alle pareti e moquette sul pavimento. — Come vi sono sembrato, Nyla? — chiesi.

Lei sorrise. — Un vero professionista, maggiore. Se mai lasciaste l’esercito potreste farvi assumere da una stazione radio.

— Ormai sono troppo grosso per adattarmi a poltrone tanto piccole — dissi. — Avete notificato a Tac-Cinque che questo edificio è sotto controllo?

— Sì, signore. Tac-Cinque comunica: «Ben fatto, maggiore DeSota». Gli altri scaglioni hanno occupato senza difficoltà i sei edifici qui attorno. L’intera area è controllata.

— E i prigionieri?

— Abbiamo tirato su un recinto nell’area di parcheggio. Il caporale Harris e tre uomini li stanno sorvegliando.

— Bene, bene — dissi. Tentai anche gli altri cassetti della scrivania. Chiusi. Mi ero impadronito dell’ufficio del capo scienziato, ma sfortunatamente in un momento in cui il capo scienziato era fuori dalla Base. E le chiavi doveva essersele messe in tasca. Una seccatura, ma non un problema. — Apritemi questi, sergente — chiesi. La sergente Sambok studiò un attimo le serrature, controllò gli angoli di rimbalzo, poi piazzò la carabina in corrispondenza di ognuno dei fori e sparò. Le pallottole andarono a conficcarsi tutte nella parete presso la porta.

I cassetti si aprirono senza altre difficoltà. All’interno c’era il solito ammasso di oggetti che ci si aspetta quando il piano di una scrivania è sgombro, oltre a un paio di quaderni e un certo numero di fascicoli dall’aria ufficiale. Naturalmente avevamo spiato questa gente molto da vicino e per mesi prima di aprire il portale, ma il Dr. Douglas avrebbe voluto dare un’occhiata a quei documenti. — Un’ordinanza, prego — dissi. Sulla porta la sergente Sambok fece un gesto, e dal corridoio arrivò di corsa un soldato semplice. — Torna alla porta d’uscita e recapita questo materiale — ordinai, rigirandomi fra le dita con ammirazione un accendisigari d’oro con sopra inciso Harrah’s Club, Lake Tahoe. Sarebbe stato un piacevole souvenir, ma lo rimisi dentro e chiusi il cassetto di colpo.

Dopotutto non eravamo ladri.

La sergente Sambok era ancora sulla soglia, e qualcosa nella sua espressione m’indusse a domandare: — C’è qualcos’altro, sergente?

— Il soldato semplice Dormeyer è AWOL — disse.

— Merda! — Lo sguardo di lei si disse d’accordo col mio commento. — Non c’è AWOL in zona di combattimento. Se gli MP lo beccano sarà accusato di diserzione. — Ecco un’altra coincidenza. — Dannazione, sergente, qualcuno dovrà pur sapere dov’è andato. Trovatelo. Voglio che torni immediatamente in servizio.

— Sì, signore. Me ne occuperò io stessa.

— Sì, sarà meglio — annuii. — Ma non dedicate più di dieci minuti a questa faccenda. Poi raggiungetemi alla porta d’uscita.

Il mio reparto d’assalto era stato il primo ad attraversare, ma ci eravamo impadroniti di ogni altro obiettivo. Adesso alla Base c’erano trecento militari di truppa (nostri, intendo, senza contare quelli che avevamo fatto prigionieri) e non avevo altro da fare finché non sarebbe stato il momento della trasmissione televisiva. Vale a dire finché non avessimo preso sotto controllo la stazione TV di Albuquerque, per inserirci da lì su altre reti. Scesi alla porta d’uscita, nello scantinato dell’edificio. Una volta era stato usato per le esercitazioni di tiro con la pistola, ma quando i nostri esploratori lo avevano individuato s’erano accorti che nessuno lo utilizzava mai.

Questo lo aveva reso perfetto per noi. Avevamo fatto passare il nostro intero contingente prima che qualcuno s’accorgesse che eravamo lì.

Sia nel nostro tempo che nel loro Sandia era una vecchia Base militare. La differenza stava nel fatto che da noi era rimasta piccola, mentre nella loro linea temporale aveva assunto dimensioni enormi. I loro reticolati di filo spinato includevano molte miglia quadrate di deserto e di colline.

Alla Base non era tuttavia distaccato un forte contingente di militari. Il perimetro era sorvegliato più da mezzi elettronici che da guardie, con un singolo posto di controllo ogni cinquecento metri. Naturalmente questo doveva essere sembrato il massimo della protezione necessaria al comandante della Base. A parte un improbabile attacco di truppe paracadutate, che sarebbe stato captato dai radar, non c’era possibilità che un eventuale nemico potesse invadere il territorio senza che la Base avesse tutto il tempo di chiamare rinforzi… a meno che, come noi, non attaccasse dall’interno. Quando fui alla porta d’uscita vidi che su una parete era già stata appesa una mappa della Base, con le zone sotto controllo colorate in rosso. Gli edifici-chiave erano la Casa dei Gatti e le immediate vicinanze, gli alloggi degli MP, il Quartier Generale, la centralina telefonica e la stazione radio. Li avevamo saldamente in pugno. Le scarse guardie armate che avevano creduto di poterli sorvegliare ora stavano meditando sul loro fallimento nel recinto.