Aprii la bocca per dirle che era una sciocca. Poi la richiusi. Non aveva affatto torto. — Ottima supposizione — annuii. — Le rispondo subito: io sono quello che conosce il suo nome completo. D’accordo?
— Sì, signore. Comunque, finché lui è chiuso nel recinto e lei è fuori…
— Giusto — borbottai. Solo in quel momento mi resi conto che, nelle ultime due ore, non aver potuto avvicinare l’altro me stesso mi aveva dato un certo disagio.
Avrei voluto confrontarmi con lui. Mi sarebbe piaciuto sedermi e parlare con lui, sentire la sua voce, scoprire dove le nostre vite combaciavano e dove erano diverse. Quella sensazione era una specie di prurito, un fremito, come la prima volta che si pensa di provare la droga, o il sesso. Ma volevo farlo.
Quando entrai nello studio dovetti dimenticare quei pensieri. I cameraman fissarono stupefatti il mio abbigliamento, il capitano del Corpo Segnalatori ghignò apertamente, ma il caporale che aveva assunto le mansioni di regista mi stava già mettendo in posizione. — Si tenga più eretto, signore! — Ascoltò quel che gli veniva detto in cuffia e alzò una mano. — Dieci… nove… otto… sette… sei… cinque… quattro… tre… — Per contare usava le dita. Due dita, un dito, poi sollevò il pollice: la luce verde della telecamera si accese, e il rullo col mio discorso cominciò a girare.
— Signore e signori — lessi, fissando gli occhi anche nella telecamera, — io sono Dominic DeSota. — Questa non era una bugia. Non avevo affermato d’essere il senatore DeSota, anche se il fatto che indossavo i suoi abiti conteneva quell’implicazione. Il discorso fu comunque breve: — Il verificarsi di un’emergenza ha richiesto che portassimo a termine questa azione. Chiedo a ogni buon americano di ascoltare questa trasmissione con la mente aperta e l’animo generoso che sono le migliori doti di tutti noi, cittadini di questa grande nazione. Signore e signori, ho l’onore di presentarvi il Presidente degli Stati Uniti d’America.
I fotoni della mia inquadratura a mezzobusto entrarono nelle lenti della telecamera, furono trasformati in elettroni e convogliati via cavo dallo studio di regia alle antenne sul tetto dell’edificio, dove vennero convertiti ancora in onde elettromagnetiche di diversa frequenza e proiettati attraverso la valle fino ai grossi ripetitori della KABQ. Da lì attraversarono obliquamente l’atmosfera, raggiungendo il satellite in orbita a qualche migliaio di chilometri da terra, e vennero di nuovo trasmessi a impianti di superficie che li disseminarono in tutti gli apparecchi televisivi degli Stati Uniti. Questi Stati Uniti. E come sarebbe stata accolta la mia immagine, e soprattutto l’immagine di un Presidente che non era il loro Presidente, era una cosa che potevo solo tentare d’ipotizzare.
L’intero distaccamento del Corpo Segnalatori era in uniforme, ma c’erano anche un bel po’ di civili con la fascia rossa al braccio. Riservisti anche loro, richiamati per quell’emergenza, e ovviamente tutti tecnici e professionisti della televisione. Da bravi civili stavano usando al meglio i comfort di quello studio. Nel corridoio qualcuno aveva allestito un buffet, con cibi e bevande d’ogni genere… anche roba calda: dovevano aver liberato e messo all’opera il PX locale.
Mi versai una tazza di caffè, ascoltando la voce del Presidente Brown che proveniva da un monitor. — …e come Presidente degli Stati Uniti, mentre mi rivolgo a voi che pure siete Presidente degli Stati Uniti, e a tutto il popolo americano… — Sembrava un po’ teso, ma la sua voce suonava sicura intanto che leggeva il discorso preparatogli per l’occasione. — …a questo punto della nostra storia ci troviamo a confronto con un sistema dispotico lanciato alla conquista del pianeta… — E poi: — … i legami di sangue, e la comune devozione ai princìpi della libertà e della democrazia… — E così via. Era un discorso piuttosto ben studiato; ne avevo letto il testo il giorno prima. Ma la cosa davvero importante non stava in quelle frasi eloquenti. Stava nel fatto che eravamo noi a controllare la situazione.
La stessa voce proveniva dalla porta aperta della cabina di regia, in fondo al corridoio. Presi la tazza e andai a dare una sbirciata. Non c’era un solo monitor lì: ce n’erano dozzine, e quasi tutti inquadravano il volto serio e grave del Presidente. Ma vidi anche schermi che mostravano altre facce, non meno serie e preoccupate: John Chancellor, Walter Cronkite e un paio di giornalisti che non riconobbi. Stavano già facendo il loro commento. Questo mi lasciò sorpreso, finché non ricordai che il discorso del Presidente durava appena quattro minuti. Era finita la nostra trasmissione in diretta, ed ora il discorso veniva ritrasmesso in differita dalle reti private che, forse colte di sorpresa, s’erano limitate a registrarlo.
Gettai un’occhiata al mio orologio. Mezzanotte, ora locale. Nelle grandi città della costa est erano le due del mattino, ma dubitavo che molti stessero dormendo. E in California la gente che guardava l’ultimo telegiornale della notte stava certo sbarrando gli occhi su una trasmissione che nessuno di loro s’era mai atteso.
Peggio per loro. Cosa li autorizzava ad essere felici e spensierati mentre noi fronteggiavamo il più terribile pericolo mai corso dal mondo libero?
Anche un comandante delle truppe d’assalto qualche volta deve dormire. Potei permettermi cinque ore di sonno. Quando mi svegliai sentii il profumo della pancetta e del caffè. Ero nell’ufficio del capo scienziato, steso sul lungo divano di cuoio del capo scienziato, e il caporale Harris stava deponendo un vassoio sul tavolinetto al mio fianco. — Coi complimenti della sergente Sambok, signore — sorrise. — Ieri notte abbiamo occupato anche il club degli ufficiali.
Le uova s’erano quasi raffreddate nel tragitto fin lì, ma il caffè era caldo e denso. Proprio quel che ci voleva per rimettermi in marcia.
Per prima cosa ripassai dallo studio televisivo. I tecnici militari erano stati raggiunti da tre civili senza contrassegni: una ragazza, una donna anziana e un uomo barbuto d’età imprecisabile. Fermai il capitano del Corpo Segnalatori e inarcai un sopracciglio, agitando un pollice in direzione dei tre. — Loro? — mi rispose. — Sono scienziati, maggiore. O almeno è quel che dicono d’essere. Comunque i loro ordini sono OK.
— Quali ordini?
— Analizzare le reazioni al messaggio del Presidente, dicono. Una specie di indagine politica o scientifica, sa com’è. — Io non sapevo, invece. Si strinse nelle spalle. — Sia come sia, per loro c’è dannatamente poco da studiare. Finora non è arrivata neanche una parola che sia una dal Presidente che hanno qui.
Questo non era il tipo di notizie che speravo di sentire. Dopo un ripensamento aggiunse: — Potrebbe informarsi da Tac-Cinque. — Ma stavo già uscendo diretto alla Casa dei Gatti. Nella piacevole aria del mattino la Base e il deserto apparivano tranquilli. Io non lo ero. Indossavo ancora la tenuta da combattimento, bagnata di sudore (forse non avrei dovuto esser stato così generoso con i miei vestiti di ricambio) e cominciavo a sentirmi preoccupato.
Il Generale Magruder, Facciaditopo, era dove vi sareste aspettati che fosse un generale alle sette di mattina, ancora con la testa sotto il guanciale, ma trovai il colonnello Harlech. Non si trattava di un tipo molto alla mano. Quando gli chiesi di quei tre civili mi gratificò di un grugnito simile a una passata di carta vetrata. — Sono autorizzati, e non è faccenda che la riguardi, maggiore — esclamò. — Qual è la situazione attuale della sua Base?
— Tutto sotto controllo, signore. — O così speravo, visto che non avevo ancora chiamato a rapporto nessuno dei miei. — Dall’esterno non c’è ancora nessun segno di reazione.
— Visitatori non graditi?