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Non avevo dimenticato di avere un concerto a Rochester, ovviamente.

In un certo senso stavo lavorando più duramente di quel che avrei fatto una volta sul palcoscenico. Stavano cercando di convincere Riccardo Muti a dirigere il concerto, e fra me e lui c’erano già state delle divergenze di opinioni. Gli avevo fatto sapere che avrei suonato Čajkowskij, e su questo s’era detto d’accordo, ma io intendevo eseguirlo senza i soliti tagli. Muti aveva incominciato a imprecare. Rochester adesso aveva difficoltà a ingaggiarlo. Be’… quello era l’uomo per loro, se riuscivano a ottenerlo. E una primadonna direttore non era il tipo che si adattava a dividere l’orchestra con una primadonna strumentista. Avevo sempre difficoltà di quel genere quando suonavo Čajkowskij, e di solito finivo per abbozzare. Ma stavolta non volevo farlo.

Così eseguii tutta la mia parte, due volte; bevvi un paio di tazze di tè e la suonai ancora.

Il guaio era che le mie dita viaggiavano con la musica, ma la mia mente era altrove. Che cosa stava facendo Dom? Non poteva almeno telefonarmi? Era possibile che quel pazzo progetto della Gasa dei Gatti, di cui mi aveva parlato, fosse una cosa in qualche modo reale? E cosa ne stavo facendo della mia vita? Ogni tanto mi accadeva di pensare che se volevo davvero avere un bambino non sarebbe mai stato troppo presto per…

Ma con chi volevo avere un bambino?

Cercai di costringermi a pensare alla musica, mentre quei dolci, lussureggianti temi romantici fluttuavano dal mio Guarnerius. Čajkowskij aveva avuto i suoi guai. Con quel concerto, ad esempio. «Per la prima volta si deve credere nella possibilità che la musica puzzi agli orecchi», aveva commentato un critico alla Prima. Come si può vivere dopo una recensione del genere? Ma adesso era messo in repertorio come uno dei concerti più amati. La sua vita era stata molto più travagliata della mia, politica a parte… forse politica a parte, perché doveva certo esserci stato un sapore bizantino in quel destreggiarsi attorno alla corte dello zar. Col matrimonio gli era andata peggio di me, e il risultato era stata una separazione tempestosa. Per vent’anni aveva scambiato torride lettere d’amore con Najeda von Meck, senza mai dare alla poverina la soddisfazione d’incontrarlo una volta, e arrivando a fuggire dal retro della casa quando lei, inattesa, s’era presentata alla porta d’ingresso. Folle di un Peter Ilych! Si diceva che all’inizio desiderasse fare il direttore d’orchestra. Ma la cosa fu un fallimento, dato che cominciò a dirigere gli orchestrali tenendo la bacchetta nella mano destra e il mento stretto nella sinistra, perché misteriosamente s’era sviluppata in lui la convinzione che se non si afferrava il mento la testa gli sarebbe ruzzolata per terra. Pazzo Peter Ilych…

Sping! esplose una delle mie corde, la seconda che spaccavo quel mattino. Dopo un sospiro dovetti mio malgrado sogghignare, al ricordo di quel che una volta Ruggero Ricci mi aveva detto: «Uno Stradivari lo devi sedurre, ma un Guarnerius lo devi violentare». Solo che io lo stavo violentando troppo rudemente.

All’istante Amy si precipitò nella stanza. Non le domandai se stava origliando: naturalmente non aveva di meglio da fare. Le lasciai esaminare il violiono, e lei se lo studiò con estrema cura prima di cominciare a togliere la corda. — Meglio sostituirle tutte — suggerii, e lei annuì. Intanto che le tirava fuori dagli involucri tornai ai sogni a occhi aperti. Pazzo vecchio Peter Ilych, riflettei… solo che quel pensiero si modificò in «Pazza di una Nyla Bowquist, che ne stai facendo della tua vita?».

Mi leccai pensosamente i polpastrelli. Erano malridotti. Non stavano sanguinando: per arrivare alla carne viva dei polpastrelli della mia mano sinistra ci vorrebbe un rasoio. Però mi dolevano. Avevo dolori da tutte le parti.

Dissi: — Amy, dove credi che sia mio marito in questo momento?

Lei controllò l’orologio da polso. — In questo fuso orario sono le cinque. Laggiù sono un’ora indietro… suppongo che sia ancora in ufficio. Vuoi che te lo chiami?

— Sì, per favore. — Perfino quand’era un altro a pagare, Ferdie non era contento che lo chiamassi da lunga distanza, così avevamo ottenuto l’uso di una linea speciale. E Amy era speciale nel tenere a mente tutti i numeri di cui potevo aver bisogno. Riuscì ad avere la comunicazione in un paio di minuti.

— Era già uscito diretto al Club — disse, porgendomi il ricevitore. — L’ho raggiunto sul telefono della sua auto.

Le rivolsi un’occhiata che lei interpretò subito correttamente. — Andrò a lavorare nell’altra stanza — sospirò, e raccolse il Guarnerius, le corde e gli attrezzucci per la pulizia.

— Caro? Sono Nyla — dissi.

— Grazie per avermi chiamato, dolcezza — rispose la sua voce calda e morbida. — Ero un po’ in pensiero per te, con tutto quel che sta succedendo…

— Oh, io sto perfettamente — mentii. — Ferdie?

— Sì, tesoro?

— Io… uh, c’è un gran caos qui, oggi.

— Lo so. Stavo pensando che potresti avere delle difficoltà a trovare un volo per Rochester. Suppongo che su ogni linea aerea ci sia il tutto esaurito. Vuoi che ti mandi il jet della compagnia?

— Oh, no — mi affrettai a dire. Ciò che volevo poteva essere molto confuso, ma sapevo benissimo ciò che non volevo. — No, Amy riesce a meraviglia in cose di questo genere. Il fatto è, Ferdie caro, che c’è qualcosa che devo dirti. — Trassi un lungo respiro per buttar fuori quelle parole.

Non volevano saperne di uscirmi di bocca.

— Si, cara? — chiese educatamente Ferdie.

Feci un altro respiro e decisi di avvicinarmi all’argomento con molta cautela. — Ferdie, tu conosci Dominic DeSota?

— Naturalmente, tesoro! — ridacchiò lui. Be’, che domanda sciocca. Quel giorno non c’era nessuno in tutta la nazione che non conoscesse Dominic DeSota, a parte il fatto che per ragioni d’affari Ferdie allacciava contatti con chiunque nell’Illinois detenesse un briciolo di potere.

— Da non credersi, vero? — commentò. — Capisco che devi essere sconvolta al pensiero di quel che ha fatto.

Deglutii saliva. Naturalmente non aveva inteso alludere a nulla di personale, ma quando avete la coscienza sporca riuscite a sentire doppi sensi anche in un semplice «Ehilà». Cercai d’immaginare quello che Ferdie poteva cominciare a dedurre dalla mia domanda. E mi resi conto che stavo recitando proprio la classica parte della moglie che ha qualcosa da confessare e non riesce a trovare il modo di dirlo. Ma il peggio era che forse il mio subcosciente stava lavorando per arrivarci in un modo più vile: insinuare nella mente di Ferdie il germe del sospetto, per far sì che fosse lui a fare quelle domande a cui volevo rispondere.

Solo che Ferdie non divenne sospettoso. Semmai anzi divenne più tenero, fra noncurante e divertito, verso quella moglie svanitella che ad un tratto non ricordava più ciò che voleva dirgli. — Ferdie — tornai a farmi forza, — c’è una cosa di cui devo parlarti. Vedi, tu sai che io ero… Eh? Che cosa succede, Amy? — sbottai, seccata, vedendola apparire sulla porta.

— È appena arrivata la signora Kennedy — m’informò.

— Oh, all’inferno! — sussurrai. Il ricevitore mi trasmise la risata di Ferdie.

— Ho sentito quel che ha detto Amy — sogghignò. — Hai un’ospite illustre. Bene, tesoro, il mio autista ha parcheggiato in doppa fila di fronte al Club, e come senti stiamo scatenando i clacson altrui. Ne parliamo più tardi, d’accordo?

— Sì, sarà meglio, caro — dissi, frustrata e ansiosa… e alquanto sollevata. Un giorno o l’altro avrei dovuto dirgli tutto, tutte quelle parole, tutte quelle verità. Ma grazie a Dio quel giorno doveva ancora venire. E quando Jackie entrò, annunciando che stava per trascinarmi a cena a casa sua… «Solo una cena in famiglia, cara, nessuna formalità, ma ci fa piacere averti con noi», fui lieta di accettare l’invito.