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Non fu veramente una cena in famiglia — i bambini non c’erano — e neppure una di quelle sedute parlamentari che uno può immaginare siano le cene della famiglia Kennedy, sebbene a tavola ci fosse il principale collaboratore di John con la moglie, perché l’unico altro ospite era il nostro vecchio amico Lavrenti Djugashvili. Ottimo compagno di tavola e piacevole conversatore, certo, ma data la situazione fui sorpresa di vederlo. Questo rendeva però la mia presenza più facile da capire, perché quella sera Lavi era solo e a Jackie non piaceva una tavola sbilanciata. — Ah, mia cara Nyla! — esclamò, baciandomi la mano. — Quest’oggi sono scapolo. Xenia è tornata a Mosca per accertarsi che il collegio fornisca tutte le giuste pillole di vitamine alla nostra bambina.

— Ma noi non propineremo pillole a te — disse il senatore. — Quel che ti offriamo è solo una cenetta tranquilla, e ce n’è bisogno dopo una giornata com’è stata quella di oggi. Albert! Vedi che drink preferisce Mrs. Bowquist.

Sarà bene precisare: Ferdie è ricco all’incirca quanto John Kennedy, ma quando noi facciamo una normale «cena informale in famiglia» non la teniamo in sala da pranzo con un cameriere in livrea che passa coi vassoi. Ci sediamo in quello che oggi si chiama «spazio colazione», e Hannah, la cuoca, arriva coi piatti e ce li mette davanti. I Kennedy non erano mai informali fino a quel punto. Avemmo i nostri cocktail nel grande salotto, dove i ritratti dei tre defunti fratelli del senatore ci osservavano dalle pareti, e quando passammo in sala da pranzo, a guardarci furono i ritratti a olio del vecchio Joe e di Rose. Il vino proveniva dai vigneti della famiglia, e l’argento non era argento, era oro bianco.

John Kennedy non aveva però mentito promettendoci una cenetta tranquilla. Questo mi aiutò a far tornare la realtà al suo posto. Fu né più né meno uno di quei piccoli «dinner party» a cui mi adattavo per un buon centinaio di sere all’anno, comprese le chiacchiere sul tempo (l’uragano faceva il suo corso, la pioggia sarebbe peggiorata), sugli esami scolastici della figlia di Lavi, e su quanto divinamente (mi ripeté Jackie) avessi suonato il concerto di Gershwin, e che peccato che quella spiacevole faccenda avesse distratto il pubblico.

L’ambasciatore mi dedicò molta della sua attenzione e dei suoi sorrisi attraenti, facendo garbati e divertenti complimenti al mio vestito, ai fiori sulla tavola, al vino e alle portate. Lavrenti m’era sempre piaciuto, anche perché amava veramente la musica. Non sempre si trattava della musica che io capivo. Una volta mi aveva portata ad assistere all’esibizione di una troupe della Georgia sovietica, cinquanta uomini robusti e scuri di pelle, molto energici e virili, che muggivano canti d’intonazione vagamente religiosa intercalandoli con vigorosi Hai! e Hei! ogni pochi secondi. Non si trattava del mio pane quotidiano, ma nell’uscire dal teatro gli occhi di Lavi erano ancora lucidi di mistiche lacrime. E l’avevo visto ammalarsi d’estasi nella sua poltrona di platea, mentre eseguivo la Seconda di Prokofiev. Il che era rivelatore, perché sebbene sia musica bellissima e piacevole solo una minima frazione del pubblico ne viene toccata al cuore.

Ma poi, per oltre un’ora, l’argomento in discussione fu l’invasione da parte degli altri Stati Uniti d’America, e naturalmente si parlò del mio Dom.

A tirarlo in ballo fu Jackie. Lei e Mrs. Hart erano impegnate in una raccolta di fondi per la Constitution Hall, e ambedue raccontarono cosette divertenti su Patricia Nixon, che voleva portare sul podio un gruppo «country-and-western» e su Mrs. Helms la quale s’era incapricciata di un tenore della Southern Methodist University e intendeva mandarlo alla ribalta. Mentre attaccavamo la gallina della Guinea in salsa di riso, Jackie si volse a me: — Che ne pensi, Nyla, te la sentiresti d’intervenire e suonare qualcosa, ad esempio Berg?

Il senatore si raddrizzò con una smorfia (la sua schiena, come sapevamo, non era mai guarita bene) e commentò: — Berg? Quella roba tutta squittii e cigolii, non è così? Davvero ama una simile musica, Nyla?

Be’, nessuno veramente «ama» un concerto di Berg. Voglio dire, sarebbe come «amare» un elefante selvaggio: dovete prestargli attenzione, vi piaccia o no. Ma è un pezzo di bravura, così ero costretta ad eseguirlo una volta ogni tanto per impressionare i critici. A casa mia non potevo ottenere un buon risultato, perché la Chicago Orchestra Hall non ha un’acustica adatta. È ottima, ad esempio, per un Beethoven o un Bruch, così ritmici e melodici che l’orchestra non ha bisogno di sentir vibrare le note. A loro serviva qualcosa sul genere di Berg, però anche l’acustica della Constitution Hall aveva gravi difetti.

Mentre li illustravo mi accorsi che non godevo dell’attenzione di John Kennedy. I suoi occhi erano su di me ma guardavano dritti attraverso il mio corpo, e invece di mangiare la salsa di riso ci stava facendo dentro dei ghirigori con la forchetta. Diedi la colpa alla sua schiena, e Lavi ebbe lo stesso pensiero: — Ah, senatore! — intervenne, con quel suo buonumore da orso russo. — Perché non viene a Mosca a farsi vedere da uno specialista? L’Istituto Medico Djugashvili, che deve il nome a mio nonno e non a me, ha i migliori chirurghi del mondo, senza discussione!

— Potrebbero darmi una schiena nuova? — borbottò lui.

— Trapianto spinale. Perché no? Abbiamo Azimof, il migliore in questo campo. Ha già fatto quattrocento trapianti di cuore, senza contare quelli di fegato, di testicoli e Dio sa cos’altro. Si dice che un giorno, dopo una mattinata molto intensa, sedette a tavola davanti a un pollo alla diavola, e prima di rendersene conto gli aveva già trapiantato i reni e un polmone.

Io risi. Jackie rise. Tutti intorno al tavolo ridemmo, eccetto il senatore. Piegò le labbra, ma il suo sorriso non durò. — Scusami, Lavi — disse. — Ma ho paura che stasera il mio «sense of humor» sia in sciopero. — Mise giù la forchetta e si sporse in avanti. — Gary, hai detto che stavano portando qui in volo Jerry Brown, vero? Voglio dire il nostro Jerry.

— È così, senatore. L’hanno localizzato nel Maine, ma l’aereo era in ritardo a causa del cattivo tempo.

Il senatore si massaggiò ancora la schiena, con un grugnito. — Dio solo sa a cosa potrà servirci Brown — disse, accennando al cameriere di portar via il suo piatto. — Ma suppongo che almeno ci darà un’immagine personale e politica del suo doppione, sulla quale regolarci.

Hart annuì. — Vorrei che avessimo stabilito una miglior linea di condotta con quella gente. Forse possiamo scovare un po’ dei loro doppioni, qui da noi, e metterli al lavoro su qualche idea.

Nessuno dei due stava guardando me, ma Jackie si. — Nyla — disse, — tu conosci Dom DeSota, naturalmente. — E cominciai a capire il motivo per cui ero stata invitata. Senza esprimere il concetto apertamente, Jackie mi stava conferendo il titolo onorario di moglie… come si potrebbe dire… fidanzata. Non avrebbe potuto trattarmi meglio se Dom e io fossimo stati regolarmente sposati. E non mi avrebbe trattato meglio, se fossimo stati sposati, perché la reputazione di Dom era chiaramente colata a picco.

O forse no, dato che proseguì: — Penso che tu gli abbia parlato poco prima che partisse per il New Mexico, al party, no? — Un’esibizione di tatto! Ma l’aiutante di Dom doveva aver parlato. — Mi chiedo se non abbia detto qualcosa circa il motivo.

Esitai. — Non so se voi siate al corrente di quel che facevano a Sandia…

Lavrenti disse: — Penso proprio di sì, mia cara Mrs. Bowquist. Perfino io ho raccolto certe voci.