Lo avevano, sfortunatamente, per Lavrenti Djugashvili. Prima che Kennedy avesse finito di leggere il rapporto della CIA, era arrivato a metà del sigaro, e lo stava masticando pensosamente allorché il senatore depose il fascicolo e si volse a interrogarlo con lo sguardo.
— Capisco dove volete arrivare — annuì Lavi. — E la cosa è molto preoccupante. Se quest’invasione della vostra terra è, in definitiva, diretta contro la mia…
— Non esattamente contro la tua, direi — lo corresse subito John. — Suppongo invece contro l’Unione Sovietica della loro linea temporale.
— La cui gente — disse Lavi, cupo, — è pur sempre la mia gente, o no?
Kennedy non disse nulla, però ebbe un gesto d’assenso impercettibile.
Lavi si alzò. — Col suo permesso, mia cara signora Kennedy — disse gravemente, — penso che adesso dovrò fare una capatina alla mia ambasciata. La ringrazio per le informazioni, senatore. Forse si deciderà di fare qualcosa, anche se ora come ora non posso immaginare cosa.
Ci alzammo tutti, anche noi donne. Non fu tanto un segno di rispetto quanto una muta dichiarazione di simpatia. Quando se ne fu andato, il senatore Kennedy suonò per il maggiordomo e gli chiese di portarci i soprabiti. — Povero Lavrenti — sospirò. E poi: — Poveri noi, anche, in quanto a questo, perché neppure io immagino cosa si debba fare.
Ad onta della sua schiena indolenzita il senatore decise di riaccompagnarmi all’albergo lui stesso. Jackie si aggregò a noi tanto per fare un giro in macchina. Il tragitto non fu esilarante. Aveva ricominciato a piovere, e sull’asfalto c’era una patina scivolosa d’acqua e morchia.
Nel largo sedile anteriore ci stavamo comodamente tutti e tre. Non parlammo molto, neppure Jackie, che innervosita si preoccupava solo di suggerire al marito l’una o l’altra strada… da quando i suoi due fratelli più giovani erano morti in modo spiacevolissimo, uno investito e l’altro arso vivo fra le lamiere contorte, bastava un po’ di traffico a tenerla sulle spine. E io avevo i miei pensieri. Le dieci di sera erano appena passate. A Chicago erano le nove. Senza dubbio Ferdie era ancora in piedi. Avrei dovuto chiamarlo? Avevo il diritto di stabilire quale fosse il bene di me e di Dom? Avevo il diritto di stabilire cosa fosse o non fosse meglio anche per Ferdie?
Così non mi accorsi subito che avevamo rallentato a causa di un inatteso ingorgo un po’ più avanti, e l’imprecazione irritata del senatore mi fece sussultare. — Che diavolo fanno? — sbottò, cercando di vedere al di là delle auto bloccate di fronte alla nostra.
— È successo qualcosa? — chiese Jackie. — Un incidente?
Non si trattava di un incidente.
Kennedy imprecò. Attraverso il parabrezza della macchina più avanti intravidi un veicolo che veniva nella nostra direzione, sull’altra corsia. Era grosso e veloce, ma non aveva i lampeggiatori della polizia o delle ambulanze. Anzi non aveva luci per niente, a parte un faro che sciabolava ritmicamente di qua e di là un raggio nitido e tagliente come una lama. E quella luce si rifletteva su qualcosa che sporgeva sul davanti del veicolo stesso.
Mi sembrò quello che avrei detto un cannone.
— Gesù Cristo e tutti i Santi! — esclamò il senatore. — È un maledetto carro armato!
Jackie mandò un’esclamazione simile a un gemito… e così anch’io, credo, perché il senatore aveva dato gas con una violenta sterzata a sinistra. Fece compiere alla grossa Chrysler un mezzo giro, sfiorando il marciapiede opposto così da vicino che un coprimozzo si staccò e rotolò via. Poi cambiò marcia e accelerò energicamente, conservando una ventina di metri sul carro armato che ci arrivava alle spalle. Continuò ad aumentare velocità sul tortuoso lungofiume, superando i centocinquanta all’ora, ma il mezzo blindato non aveva perso molto terreno, e voltandomi vidi con orrore che il cannone si abbassava. Ci stava mirando dritto addosso. Anche il senatore dovette accorgersene, perché al primo incrocio inchiodò i freni e girò a destra di colpo. La sbandata ci portò fin sul marciapiede opposto di quella traversa, e dopo che una delle ruote posteriori lo ebbe urtato — e lo urtò a non meno di settanta all’ora — ci fermammo di traverso sulla strada.
Un taxi ci stava arrivando addosso strombazzando disperatamente.
Non mi ero mai sentita tanto vicina alla morte. Con un miracolo di abilità l’autista del taxi riuscì a fermarsi, anch’egli di traverso, e con non più di un palmo di spazio fra la portiera e il nostro parafanghi. Attraverso il finestrino vidi l’autista che urlava maledizioni a John, rosso in faccia e sconvolto.
Non gli prestammo alcuna attenzione.
Il nostro motore era in folle, ma John non tentò neppure di ripartire. Aprì la portiera e uscì, raddrizzandosi con un grugnito di sofferenza, gli occhi fissi sull’altra strada. Il carro armato ci passò davanti in un rombare di cingoli, veloce e minaccioso, seguito da una dozzina di camion da trasporto-truppe. Erano aperti, e potei veder luccicare gli elmetti di molti soldati in assetto di guerra. A chiudere la fila c’era un altro grosso tank.
— Da non credersi — mormorò John Kennedy.
— Perché stiamo facendo pattugliare le strade da mezzi blindati? — domandai. Lui si volse a fissarmi. John non era certo un giovanotto, ma non l’avevo mai visto così vecchio e stanco come in quel momento. Mise un braccio attorno alle spalle di Jackie con fare protettivo.
— Non siamo noi a farlo — disse. — Quelli non sono nostri. Non ho mai visto carri armati di quel genere.
La giovane veterinaria aveva appena ventiquattr’anni ed era terrorizzata. S’insaponò e si sciacquò sotto la doccia sei volte di seguito, come le era stato ordinato, e completamente nuda uscì nella sconosciuta camera da letto di quella fattoria, dove il capitano dell’esercito la stava aspettando. A spaventarla non era il fatto d’essere nuda davanti a un uomo, mentre lui le passava il contatore Geiger su ogni centimetro di pelle, gli orecchi tesi allo sporadico crepitio dell’apparecchio. — Sembra che vi siate lavata via tutta la polvere — dichiarò infine il militare. — Avete detto d’aver trovato altro bestiame in queste condizioni? E polvere come questa dappertutto? — Lei annuì, ad occhi sbarrati. — Potete rivestirvi. Penso che siate a posto — disse lui. Ma nel guardarla uscire non riuscì a trattenere un brivido. Fallout radioattivo! Un miglio quadrato di terreno ricoperto da particelle altamente radioattive… lì, a neanche quaranta miglia da Dallas, quando non erano in corso esperimenti atomici da nessuna parte, per quel che ne sapeva. Era un enigma senza risposta. Ma intanto quel pensiero lo raggelava fino all’osso… cosa sarebbe successo se la nuvola di particelle mortali fosse ricaduta nel cuore della città?
Stavo sognando che Mrs. Laurence Rockefeller mi aveva incaricato di stipularle ipoteche su tutto il complesso di appartamenti da seicento milioni di dollari che aveva sul lungolago, solo che voleva partire con una rata mensile di centocinquanta dollari e tutta in monetine da dieci cents… e quando finalmente avevo il contratto pronto, lei non poteva firmare perché non aveva i pollici. Poi il sussulto dell’aereo che toccava la pista mi svegliò, e la prima cosa che mi chiesi non fu dove mi trovavo, né cosa mi sarebbe accaduto, ma se Mr. Blakesell aveva saputo del mio arresto in tempo per mandare qualcuno dai tre clienti che avevo lasciato in sospeso. Io non potevo farci niente, naturalmente.
E non c’era nessun’altra cosa che potessi fare, perché ero stato ammanettato alla spalliera del sedile di fronte. Il mio primo volo sulla lunga distanza a bordo di quel nuovo grosso quadrimotore Boeing era stato un’interminabile tortura. Avevo sofferto su quella poltroncina per sette ore, oltre alle due fermate intermedie, mentre sotto di me scorrevano centinaia o forse migliaia di miglia. Ma i dolori che avevo addosso me li portavo dietro da prima che mi spingessero su per la scaletta dell’aereo, con le mani imprigionate dietro la schiena e quel ringhioso agente dell’FBI, Moe Nonsochi, che mi minacciava di tutte le condanne del codice qualora avessi parlato, o cercato di fuggire, o tentato di levarmi il cappello e quel velo sulla faccia che mi avevano messo per evitare che chiunque potesse riconoscermi. Lui sapeva tutto sui dolori con cui ero giunto all’aeroporto. Aveva lavorato duramente per procurarmeli.