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Dovevo ammettere ormai che quella gente dell’FBI, uomini e donne, la sapevano lunga su come far male senza lasciarvi un segno addosso.

Al di là del passaggio centrale anche l’altro prigioniero, lui pure con cappello e velo sulla faccia, s’era svegliato. Potevo vederlo muovere la testa. La sua guardia continuò a russare vigorosamente come la mia, intanto che l’aereo rullava avanti lungo una pista che si sarebbe detta senza fine.

Almeno ero fuori da quella cella di sicurezza nel loro quartier generale di Chicago dove avevo trascorso la più parte degli ultimi… quanti erano stati? Giorni, di sicuro, anche se nessuno mi aveva detto quanti. Era stato un soggiorno assai sgradevole, malgrado la compagnia di un gruppetto d’individui socialmente indesiderabili (sindacalisti sulla via del campo di concentramento, speculatori falliti, negri che non avevano voluto stare al loro posto) ma avevo finito per trovarli amabili, a confronto di quelli che ogni tanto venivano a prendermi per interrogarmi ancora. Da me non avevano saputo nulla, naturalmente. Io non avevo nulla da dire… ma, mio Dio, quanto avrei desiderato averlo!

Poi Moe era venuto a scuotermi dal sonno, mi aveva fatto fare il corridoio a spintoni e da lì a non molto m’ero ritrovato su un aereo. Diretto il Cielo sapeva dove.

No. Sia il Cielo che io sapevamo dove, adesso, perché attraverso il velo e il cristallo del finestrino potevo vedere il terminale di un piccolo aeroporto. Su di esso una grossa insegna augurava:

BENVENUTI AD ALBUQUERQUE,
NEW MEXICO
Altitudine 5196 piedi

Il New Mexico, sant’Iddio! Cosa potevano volere da me nel New Mexico?

Ovviamente Moe non si sarebbe preso la briga di dirmelo. La hostess venne a battergli su una spalla per svegliarlo, e subito lui si sporse a scuotere l’altra guardia, ma tutto ciò che disse a me fu: — Ricorda quel che ti ho detto. — Con un cenno lo tranquillizzai sulle mie capacità mnemoniche. Ci fecero aspettare finché tutti i passeggeri furono scesi dal Boeing, poi ci fecero aspettare ancora un po’, mentre i meccanici controllavano qualcosa dei grossi motori e un’autocisterna riforniva i serbatoi di benzina a 100 ottani.

Poi alla porta del terminal comparve un uomo che alzò un pollice verso Moe, in attesa al finestrino.

Le manette scattarono e fui fatto incamminare verso l’uscita, ma mi costò uno sforzo non vacillare qua e là ed evitare d’inciampare sulla scaletta. Io e l’altro prigioniero venimmo indirizzati alla porta di un terminal che sembrava esser stato costruito come scenario per un musical d’ambiente latinoamericano. C’era gente che ci guardava. I curiosi più vicini furono scostati con un cortese «Circolare!» e una spinta, ma non erano molti, perché gli scagnozzi dell’FBI non erano difficili da riconoscere e la gente sapeva quand’era il caso di tirar via diritto. Fuori c’era una grossa auto. Moe mi affiancò sul sedile anteriore, e l’altro prigioniero con la sua guardia sedettero dietro. Una macchina della polizia cittadina ci fece strada, l’autista diede gas e le schizzammo dietro. A velocità fin troppo sostenuta attraversammo la cittadina e quindi girammo sulla statale, che serpeggiava verso una zona collinosa.

Dopo quasi un’ora di corsa apparve un crocevia, e l’auto rallentò rapidamente. Era una terra quasi desertica, le strade silenziose si allontanavano verso i quattro punti cardinali, e gli unici edifici erano una stazione di rifornimento ed un motel. L’insegna sull’ufficio diceva: «LA CUCARACHA — Il riposo del viaggiatore». L’ultimo nome che io avrei mai dato a un motel.

E se fossi stato un viaggiatore desideroso di riposarmi, la vista delle guardie armate sul vialetto mi avrebbe incoraggiato a riposare altrove.

Le guardie, comunque, erano un tocco decorativo a cui cominciavo ad assuefarmi. Così c’erano segni buoni e segni cattivi. Quello cattivo consisteva nel proseguimento della mia detenzione. Quello buono nel fatto che la detenzione sarebbe proseguita a Leavenworth o in un campo consimile, dove mi avrebbero tenuto finché non fossero stati pronti a farmi uscire… se ne sarei uscito. Doveva essere una delle isolette nell’arcipelago dell’FBI. Non potevano aver intenzione di trattenermi a lungo. Avrebbero dovuto lasciarmi andare.

Come alternativa, dal motel «La Cucaracha» poteva uscire di me appena quel che bastava per essere rimandato a casa per la sepoltura.

Non ebbi il tempo di farmi altre domande. Il mio silenzioso collega ed io fummo spinti in una delle piccole stanze, dove ci venne ordinato di sedere sul bordo del letto e starcene quieti, mentre Moe si piazzava sulla soglia con gli occhi fissi su di noi e l’altro faceva il palo all’esterno. Non dovemmo aspettare per molto. Da lì a poco la porta batté sulle spalle di Moe, che si tolse di mezzo senza neppure guardare chi era.

A entrare fu Nyla Christophe, con le mani unite dietro la schiena.

Portava un cappellino da sole e occhiali neri. Come al solito la sua espressione era indecifrabile, ma potrei dire che ci esaminò con pensosa indifferenza… quella stessa indifferenza con cui il cane s’arrota i denti sul solito vecchio malridotto osso. La sua voce non ebbe nulla di spiacevole salvo il fatto che era la sua voce, quando disse: — Va bene, voialtri due, adesso potete togliervi quei veli dalla faccia.

Farlo mi diede un certo sollievo, visto che eravamo nel deserto e stavo sudando. L’altro uomo si mosse invece lentamente e controvoglia, e levandosi il velo rivelò un’espressione offesa, spaventata, infelice… tutti sentimenti che m’ero aspettato. Ma ciò che non m’ero aspettato era che quell’espressione appartenesse alla faccia di Larry Douglas.

Fino ad allora ero stato assolutamente certo che Larry Douglas aveva una parte di colpa nelle mie disgrazie di quegli ultimi giorni. Come, non lo sapevo. Perché, non potevo neppure immaginarlo. Così non mi misi a piangere nel vederlo preso nella stessa trappola in cui m’aveva aiutato a cadere… solo che questo rendeva tutto molto più confuso per me. Se aveva riferito a Nyla Christophe ciò che gli avevo detto quando mi aveva trascinato a far visita a quel vecchio attore in disuso, perché era prigioniero come me? E cosa stavamo facendo lì nel New Mexico?

Notai con stupore che Douglas aveva le mie stesse perplessità. — Nyla — disse, sforzandosi inutilmente di avere una voce ferma. — Cosa diavolo significa tutto questo? I tuoi ragazzi sono piombati in casa mia e mi hanno trascinato giù dal letto, senza neppure dirmi una parola…

— Tesoruccio — disse dolcemente lei, — tappati la bocca. — Malgrado gli occhiali neri, lui poté vedere abbastanza della sua espressione da deglutire a vuoto. Tacque. — Così va meglio — approvò lei. Girò appena la testa. — Moe?

— Sì, miss Christophe?

— Il laboratorio mobile è già qui?

— Parcheggiato proprio dietro il motel. È tutto pronto.

Lei annuì. Si tolse cappello e occhiali e sedette nell’unica e consunta poltrona di cui era fornita la camera. Senza voltarsi a guardare protese una mano di lato. Moe le infilò una sigaretta fra l’indice e il medio, poi fece scattare l’accendino. — È possibile — disse lei, — che voi due siate puliti, in questa faccenda. Ma ci sono alcune cose che dovete chiarire.