— Oh, finalmente, Nyla! — gemette Douglas. — Io lo sapevo che doveva essere tutto un malinteso!
Ed io riuscii a chiedere quello che, con mia vergogna, ammetto di non aver chiesto neppure a me stesso in quei giorni: — Cosa ne è stato della mia fidanzata e degli altri, miss Christophe?
— Questo dipende da voi, DeSota. Se il piccolo test che adesso faremo andrà come io penso, tutti loro saranno rilasciati.
— Grazie al cielo! Uh… di quale test sta parlando?
— Quello che vi verrà fatto adesso — disse. — Avanti, Moe, faglielo. — E lasciò la camera, facendo entrare l’altra guardia con una valigetta metallica dietro cui venne un individuo in camice bianco con una valigia in mano anche lui.
Non potei fare a meno di ripiegarmi su me stesso; ma subito fu chiarito che Moe non si apprestava a picchiarmi ancora. Ciò che misero in atto prese parecchio tempo, tuttavia non era nulla di spiacevole… be’, non fu neanche troppo divertente. Mi presero le impronte digitali e quelle delle scarpe; mi presero varie misure degli orecchi e la distanza fra le pupille. Mi prelevarono campioni di sangue, di saliva e di pelle, quindi dovetti orinare in una bottiglietta e defecare in un vaso di carta. Non fu cosa breve. L’unico elemento che la rese meno detestabile fu che il mio detestabile compagno di prigionia — l’anguilla dei tribunali Larry Douglas, il mio cospiratore del Carson coffee-shop, l’uomo che mi aveva fatto sprecare una serata dai Reagan a Dixon, Illinois — dovette fare le stesse cose che facevo io.
E gli piacquero ancor meno. Moe e l’altra guardia esibirono all’improvviso una sensibilità delicata e preferirono uscire a sorvegliarci dalla finestra; così, intanto che il tecnico del laboratorio si dava da fare, Douglas e io potemmo parlare un poco. La mia prima domanda fu quella su cui più m’ero arrovellato: — Chi diavolo sei tu? Una specie di federale travestito?
Aveva l’aria di un cane bastonato, e la sua risposta fu un grugnito: — Grattati la rogna tua, DeSota. — Fissò cupamente il mio sangue che risaliva in una siringa, premendosi un dito sulla vena dell’avambraccio dove il silenzioso tecnico aveva appena salassato lui.
— E allora cosa sei? L’amichetto di Nyla Christophe? Il suo complice? Il suo prigioniero?
Lui borbottò appena: — Sì. — Abbassò i pantaloni e si lasciò prendere un campione di pelle da una natica. — Se fossi al tuo posto, DeSota — disse, ostile, — non mi preoccuperei tanto degli altri. Hai un’idea del guaio in cui sei infognato?
Gli risi in faccia. Tutti i dolori e le miserie del mio corpo non stavano facendo altro che dirmi in che guaio ero. — Comunque — pùntualizzai, — lei ha detto che forse siamo puliti, e allora di cosa dovrei preoccuparmi?
Mi guardò fra la pietà e il disgusto. — Questo è quel che ha detto, certo. Ma le hai sentito dire anche che sarai rilasciato, per caso?
Fui costretto a deglutire un groppo di saliva, prima di replicare: — Di che accidenti stai parlando, Douglas? — Lui scosse le spalle e si volse a guardare il tecnico, senza rispondere. Da lì a poco l’uomo raccolse i campioni e mise gli strumenti nelle valige, poi se ne andò. Le guardie non rientrarono, anche se le potevamo vedere sedute sulla balaustra che si facevano vento e guardavano verso la strada. Al di là di essa, sulla linea ferroviaria, stava passando un elegante treno passeggeri, e con una stretta al cuore ripensai a Greta. Dissi, ancora: — Di che stai parlando? Lei ha detto che probabilmente ci farà rilasciare…
— Non «noi», DeSota. Loro. I testimoni, che non sanno niente. Tu sei un esemplare del tutto diverso. Tu sai molte cose.
— Ah, sì? — Mi frugai nel cervello e continuai a trovarlo vuoto. — Buon Dio, uomo, se non so neppure cosa vuole da me!
Strinse le palpebre. — La principale cosa che sai è che c’è qualcosa da sapere. Ed è la cosa più grossa. Come hai fatto a trovarti in due posti nello stesso momento?
— Come ho fatto cosa? — esclamai.
— Ma sai che è successo questo — insisté. — Perciò sai che è possibile. E sai che qualcuno… diciamo un criminale, può fare qualcosa, diciamo commettere un delitto, e tuttavia avere un centinaio di testimoni insospettabili pronti a giurare che lui era qualcun altro. Gesù, ragazzo! Sai cosa significherebbe per uno come me? Voglio dire uno che avesse bisogno di questo genere di alibi? — si corresse.
— Ma non so come sia potuto succedere — gemetti.
— L’unico a crederti sono io — sbottò acidamente. — Svegliati un po’. Credi davvero che Nyla ti rimanderà a casa, perché tu possa dire ad altri come hai fatto?
Sedetti, scosso da quelle parole.
Riuscivo a vedere la logica di quel ragionamento. E correva voce che i campi di lavoro dell’FBI fossero pieni di gente in possesso di informazioni che non era permesso rendere pubbliche. Se quello era il mio caso…
Se io ero uno di loro la mia prossima destinaziome non sarebbe stata Chicago. Sarebbe stata una pista fangosa nelle Everglades, a scavare canali di drenaggio ed a lottare coi coccodrilli… o una foresta nevosa dell’Alaska, a buttare giù alberi per aprire strade fra le miniere e le raffinerie. O qualunque altro posto. Dovunque. E quello, c’era da starne certi, sarebbe stato il mio indirizzo permanente, almeno fino al giorno in cui i miei segreti non sarebbero più stati segreti di qualche importanza.
O fino al giorno della mia morte, se fosse venuto prima quello. Ed ero abbastanza sicuro che dopo un paio d’anni di campo di lavoro non mi sarebbe importato molto quale delle due cose accadesse per prima.
Quando l’ombra dell’asta della bandiera sull’aiuola si fu accorciata fino a sparire, col sole praticamente a picco, ci portarono dei sandwich di prosciutto e formaggio, avvolti in carta oleata, e un orripilante caffè, il tutto partorito dalle viscere di un distributore a moneta della stazione di servizio. Stavo morendo di fame, ma quei sandwich mi diedero la nausea. Li misi da parte. Quando la porta si riaprì preparai la tazza e gli involucri per restituirli a Moe.
Ma lui e l’altra guardia non erano entrati per quel motivo. Si fecero da parte e dietro di loro venne Nyla Christophe. Sul suo volto c’era un sorrisetto annacquato. In una mano priva di pollice aveva una bottiglia di champagne, e la reggeva contro il petto per non rischiare di perderla. — Congratulazioni, ragazzi — annunciò. — Avete superato il test. Siete sempre gli stessi.
Né Douglas né io dicemmo una parola. Lei fece il broncio. — Oh, tesoruccio — disse a Douglas con una risatina (non fu esattamente una risatina rassicurante). — Non capisci che questo è il mio modo per dirti che mi dispiace? Bicchieri — ordinò, senza alzare la voce, e uno degli scagnozzi s’affrettò ad arrivare con un vassoio del motel. Lei mosse appena il capo; le guardie uscirono. Poi diede la bottiglia a Douglas.
— Così vanno le cose, carino — gli disse, mentre l’uomo, guardando più lei di quel che stava facendo, svolgeva il tappo con automatica destrezza. — Lieta di vedere che non hai perduto il tuo tocco.
C’era qualcosa nell’aria di lui (fra bellicosa e preoccupata) e nella dolcezza di lei (meno ironica di quel che voleva far credere) che mi confuse alquanto. Di qualunque genere fosse, la loro relazione non era certo quella che avrei supposto fra un agente federale e il suo informatore.
Ci fu il pop del tappo che veniva via del tutto.
Douglas versò. Nyla Christophe accettò il primo bicchiere, cingendolo abilmente con le sue quattro dita. — Sai di cosa sto parlando? — Dopo un lieve singulto (quella non doveva essere la sua prima bottiglia di champagne della giornata, pensai) guardò me. Io scossi la testa. Lei disse: — No, lo supponevo. Gli esami sono andati bene: stesso sangue, stesse ossa, stesse impronte. Voi siete gli stessi di prima… e il mio rapporto è già in strada per il Quartier Generale, dove fra non molto andrò a risiedere anch’io. Così brindiamo a Nyla Christophe, forse futuro direttore capo dell’intero dannato Bureau!