— Già, certo. L’abbiamo mandata a catafascio, credo. Ma il fatto è: quanto tempo ci rimane?
— Tempo, signore?
— I russi — precisò. — Si stanno mobilitando. — Ingoiò un lungo sorso di caffè. Era sì e no due gradi sotto il punto di ebollizione, e mi ci ero già ustionato le labbra. Magruder doveva avere la gola laminata in bronzo. — Il mondo sta per saltare in aria, DeSota — disse stancamente. — I prigionieri parlano con le guardie, le guardie parlano con le loro amichette, i feriti parlano con le infermiere, e i giornalisti piombano addosso a tutti come avvoltoi. Non potremo tenere il coperchio sulla pentola ancora per molto… qual è il problema, colonnello? — chiese, voltandosi verso l’ufficiale di picchetto.
Il colonnello s’era avvicinato, con un foglio in mano. Lo agitò nella mia direzione. — Scusi, signore — sbottò, in tono per nulla di scusa, — ma quest’uomo è Dominic DeSota, no? Cristo, DeSota, che accidenti sta facendo qui? È nel posto sbagliato! Mi risulta che dovrebbe essere già passato dal punto di uscita… tolga le chiappe da qui e vada immediatamente allo zoo!
Magruder parve stabilire che una corsa in auto con me era quel che gli si addiceva. Non pronunciò parola. Si limitò a balzare sulla jeep da una parte mentre io saltavo dentro dall’altra, e certo non stetti a obiettare. Continuò a tacere anche quando l’autista filò via facendo stridere i pneumatici. Non c’erano molte auto in giro. I civili avevano ubbidito agli ordini, e quelli che non stavano tappati in casa erano pochissimi. I semafori seguitavano a lavorare però al loro solito ritmo, e oltrepassammo gli incroci facendo ululare il clackson, rosso o verde che fosse, ma non trovammo nulla a ostacolarci finché non girammo sul viale.
E l’autista dovette inchiodare di colpo i freni.
Il viale era bloccato per tutta la sua lunghezza. Sembravano gli schieramenti preliminari per la parata del Giorno delle Forze Armate, con le rappresentanze di ogni arma in sosta anche nelle stradicciole laterali, e i capisquadra dagli elmetti rossi o dorati che andavano nervosamente avanti e indietro accanto ai loro veicoli in attesa di ricevere via radio il segnale di partenza. Solo che non si stavano preparando a una parata. Si preparavano a varcare il portale, per attaccare la Signora Presidentessa. E in quello scenario c’era una nota anacronistica: una corsia del viale era stata tenuta aperta per evacuare un po’ degli animali più ingombranti dello zoo, tutti quanti mezzo imbizzarriti per il rumore e la confusione. Veicoli simili a vagoni ferroviari, con porte e finestre di sbarre, stavano portando via leoni, leopardi e gorilla. Dietro di questi dozzine d’inservienti frenetici stavano facendo marciare le giraffe, gli elefanti e le zebre nella calda notte di Washington. Il nostro autista suonò rabbiosamente il clacson. Un elefante scalpitò con un barrito minaccioso. — Al diavolo! — mi gridò all’orecchio Magruder. — Impossibile passare in questo caos! Dobbiamo proseguire a piedi!
Anche a piedi non fu un divertimento. I cingolati da assalto erano fermi in lunghe file, e zigzagare fra essi significava finire ogni tanto quasi fra le zampe degli elefanti… e dover saltare, qua e là, mucchi di sterco d’elefante. Facciaditopo Magruder avanzava come un mediano di mischia in possesso di palla fra la difesa avversaria, voltandosi a lanciarmi richiami a cui non rispondevo neppure, occupato com’ero a farmi strada verso il cancello dello zoo oltre il quale c’era il portale.
Nessuno era in via di passaggio attraverso il rettangolo nero.
— Dannazione! — imprecò ancora Magruder. — Andiamo! — E si diresse al bar dello zoo, dove gli ufficiali in comando si stavano affollando attorno a un televisore.
— Qual è il problema qui, eh? — sbottò. Un generale con due stellette si volse.
— Guardi lei stesso. — Agitò un pollice verso lo schermo. — C’è una trasmissione via satellite dal palazzo delle Nazioni Unite, a Ginevra.
Un diplomatico grasso, con occhiali a pince-nez, stava leggendo qualcosa alle telecamere. La voce che si udiva era però quella di una donna, che traduceva dal russo all’inglese.
— I russi? — chiese Magruder.
— Indovinato — annuì l’altro generale. — Quello che sta parlando è il delegato sovietico. Nota la sua faccia stanca? Sono circa le sei di mattina laggiù; dev’essere rimasto in piedi tutta la notte.
— Che cos’ha detto, signore? — domandai io.
— Be’ — riferì asciutto il generale, — sta dicendo che hanno… come le ha chiamate? le prove incontrovertibili che stiamo portando avanti un attacco contro di loro passando attraverso un mondo parallelo. Ha detto che se non ritiriamo immediatamente le nostre truppe la Russia agirà come davanti a un’invasione del suo territorio. C’è quasi da ridere, no? I russi che proteggono gli americani da altri americani!
Deglutii saliva. — Questo significa che…
— Che ci attaccheranno? Sì, sembra che voglia dire questo. Perciò può anche trovarsi da sedere da qualche parte. Abbiamo bloccato ogni movimento di truppe finché qualcuno non deciderà quel che dobbiamo fare… e ringrazio Iddio che quel qualcuno stia molto più in alto di me.
Poiché era una dei pochissimi che riuscivano a decifrare il suo linguaggio da laringectomizzato, alla segretaria venne chiesto di spingere la sedia a rotelle dell’uomo lungo gli antichi viali ombrosi del college. Ma davanti alla scalinata della terrazza dovette fermarsi. — Cercherò qualcuno che mi aiuti — disse, e si chinò per ascoltare il sussurro di lui. — Oh, no — lo rassicurò. — Non è un disturbo, Dr. Hawking! — E non mentiva. Anche nell’afa di quell’Agosto inglese (c’erano più di 35 gradi!) scortare uno scienziato di fama mondiale nei bei viali di Cambridge non era una seccatura. Era un onore, e una responsabilità. Ma quando la donna fece ritorno con un robusto impiegato e un ansioso professore del King’s College, le sfuggì un grido di sconforto. — Ma non può essersi alzato da solo! — gemette. Tuttavia davanti a loro c’era la sedia a rotelle, con le cinghie di sicurezza ancora allacciate, il poggiapiedi fissato in alto per tenere ferme le sue gambe invalide… ma Stephen Hawking non era più lì.
Non riuscireste mai ad abituarvi a saltare da un tempo parallelo a un altro, neppure se sapeste che è quanto vi sta accadendo.
Io non lo sapevo.
Tutto ciò che seppi fu che un momento prima stavo affrettandomi giù per le scale che scendevano dall’appartamento della Presidentessa, con gli occhi fissi sulla donna che amavo. E un momento dopo, senza alcun percepibile intervallo di tempo (avrebbero potuto essere ore, e avrebbero potuto essere giorni) giacevo disteso sulla schiena mentre una voce mi sussurrava dolcemente all’orecchio che non avevo nulla di cui preoccuparmi. Quello era proprio il genere di cose che riuscivano a preoccuparmi. Sapevo riconoscere una bugia quand’era abbastanza grossa, e un nodo d’angoscia mi strinse alla gola.
Questo era ciò che provavo a livello mentale. Ma il mio corpo non sembrava far parte di quel tormento, di quell’angoscia. Giaceva immobile e perfettamente rilassato. Non avevo mai provato una tale rilassatezza fisica fin’allora, salvo forse ogni tanto dopo un amplesso davvero prolungato con Nyla quando ambedue ci abbandonavamo piacevolmente sfiniti. Non voglio dire che le mie condizioni avessero qualcosa di sensuale, solo che ero in uno stato di pieno e completo riposo muscolare.
Non c’era motivo che giustificasse questo. C’erano mille motivi per cui avrei dovuto essere teso e allarmato, e avrei dovuto sentirmeli come un groviglio doloroso nei muscoli e nei nervi. Inoltre nulla di quel che potevo vedere o sentire sembrava fatto per rassicurarmi. Ero disteso su un giaciglio duro in un locale simile a una stanza mortuaria delle più macabre. C’era un’altra dozzina di giacigli oltre al mio, ciascuno con un corpo umano su di esso. L’acre odore di medicinali e sostanze chimiche mi convinse che doveva trattarsi appunto di una «morgue».