Выбрать главу

Neanche la persona che mi stava sussurrando all’orecchio era rassicurante. Non aveva faccia. Uomo o donna che fosse, ciò che riuscivo a vedere era un velo color carne che celava tutto dai capelli al mento. Oscillava appena, mentre la voce parlava, ma sotto di esso non s’indovinavano forme o lineamenti d’alcun genere. Lei (o lui) stava dicendo: — Sarà trattato bene, uh, senatore, uh, DeSota, e godrà della più completa libertà personale. — E mi poteva vedere, benché non gli/le scorgessi gli occhi, perché le sue mani mi stavano toccando, e dove lui/lei mi toccava avvertivo un formicolio o una fitta di dolore.

Mi stava facendo qualcosa. Potevo solo lasciare che lo facesse.

E c’era un’altra cosa che dovetti lasciar succedere. Non voglio dire che non fossi scosso, o preoccupato… diavolo, ero terrorizzato! Ma qualunque cosa la mia mente provasse a dire al mio corpo esso non ubbidiva: faceva ciò che gli diceva di fare qualcun altro. Non c’era bisogno che gli fosse detto in parole; tocchi e gesti bastavano, e all’istante il mio corpo si muoveva, si girava, o presentava al richiedente la parte da lui desiderata.

D’un tratto ricordai che avevo già visto qualcosa di simile, dopo che Nyla Senzapollici e il suo gorilla erano stati recuperati insieme a noi dalla stanza del motel nel New Mexico. Ma loro erano addormentati. Questo era molto, molto peggio. E in quell’occasione io ero stato solo uno spettatore. Non avevo mai immaginato di poter subire un trattamento così indegno, col mio corpo che si girava da una parte e dall’altra, da solo, offrendosi poi a una specie di sculacciata finale.

Fu a quel punto che mi accorsi d’essere nudo. E avrei anche potuto non arrivare a quella constatazione se la voce non avesse detto: — Può anche alzarsi e vestirsi, adesso, e poi passare nell’hover.

Il mio corpo ubbidiente indossò un paio di short, scarpe da tennis e una specie di maglietta di rete. Il tutto mi aderiva spiacevolmente, non tanto perché fosse della mia misura quanto perché a quel materiale sembrava non importare quali fossero le misure di chi lo indossava. Poi il mio corpo ubbidiente si mise in marcia dietro la donna (o uomo) per uscire da quel locale privo di porte. No, non c’erano porte. E neppure ne apparve magicamente una all’ultimo momento. Ciò che accadde fu che lui/lei s’incamminò verso il muro e continuò a camminare, e così feci io… insieme ad altri sette od otto corpi altrettanto compiacenti i quali appartenevano a persone vestite con un completino da spiaggia color nocciola identico al mio.

E in quanto a questo, eravamo davvero su una spiaggia. O non molto distanti. Il luogo era una sorta di aeroporto, una curiosa mistura di edifici decrepiti e strutture nuove di zecca, e quella era una calda giornata estiva, con la brezza marina che portava con sé un forte odore di alghe e di salmastro, e la risacca che frusciava sulla massicciata d’una strada piuttosto malridotta. Oltre il moncone di un palo da bandiera c’era un muro di cemento, sulla cui superficie erano state inserite conchiglie a formare una larga scritta:

— FLOYD BENNET FIELD —

Oltre il tetto del basso e squadrato edificio bianco da cui eravamo emersi (non c’erano porte neppure a guardarlo dall’esterno) un grande aereo dalle ali a delta si stava abbassando con un acuto sibilo di jet. Rallentò con rapidità incredibile, mise fuori i flaps, poi fece ruotare i motori e atterrò verticalmente, toccando la pista pochi metri più in là dell’edificio. Non accadde altro, salvo che subito dopo fu l’edificio a muoversi: ebbe una vibrazione, si sollevò su invisibili ruote e scivolò avanti fin sotto il capace ventre del velivolo. A qualche centinaio di metri di distanza un aereo dello stesso genere stava calando a contatto del suolo un altro piccolo edificio bianco. Mi volsi al più vicino del nostro gruppetto di zombie e parafrasando la canzone lo apostrofai: — Dorothy, credo proprio che questo non sia l’Arkansas.

Lui mi fissò irritato. Poi il suo sguardo cambiò. — Non ci siamo già conosciuti?

Lo fissai con più attenzione. — Il Dr. Gribbin? Ci siamo visti a Sandia, mi pare.

— Satanasso dannato! — annuì. — E lei è il congressista yankee. Che accidenti sta succedendo qui, lo sa?

Io non sapevo neanche se valeva la pena di tentare di rispondere a quella domanda. Ma mentre cercavo di metter l’una dietro l’altra due parole che avessero senso, una voce alle mie spalle mi salvò: — È un tempo parallelo — disse zelante Nicky DeSota. — Conosce un po’ la meccanica dei quanta? Bene. Sembra che Erwing Schroedinger, o forse qualcuno che giocava in squadra con lui, abbia detto che una reazione nucleare, la quale può andare in un modo o nell’altro, va in tutti e due i modi. Ad esempio, prendiamo una scatola e mettiamoci dentro un gatto…

Dovetti passarmi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere. Ecco come un sensale d’ipoteche riusciva a spiegare l’indovinello di Schroedinger a uno dei più esperti fisici moderni. Ma Nicky aveva un vantaggio su Gribbin: lo aveva visto accadere. Un altro uomo, anch’egli in maglietta e shorts, si stava avvicinando ad ascoltare il discorso di Nicky. Ma la mia attenzione era altrove. Stavo esaminando il mondo sconosciuto che mi circondava e mi chiedevo perché ero lì, e se sarei mai tornato alla mia vita e al lavoro normale del Senato… be’, non che adorassi i corridoi del Senato, ma almeno lì vigeva un tipo di anormalità a cui m’ero abituato. E soprattutto mi domandavo dove fosse in quel momento la donna che amavo. Nel nostro gruppetto c’erano alcune donne, a me del tutto sconosciute. La persona senza faccia (una tuta candida completa di guanti e stivaloni bianchi celava il resto del suo corpo) ci stava intanto facendo incamminare verso uno strano veicolo. Sopra il predellino una donna, con l’identico abbigliamento ma la faccia scoperta, era intenta a parlare col conduttore; quando ci vide avvicinare balzò giù e scappò come fossimo appestati.

Ancora non sapevo quanto fosse azzeccato quel paragone.

Nicky e Gribbin stavano sempre chiacchierando. — Faremmo meglio a salire su quell’affare — li incitai.

Gli occhi di Gribbin mi fissarono, perplessi, ma quando li spostò da Nicky a me gli si sbarrarono. — Voialtri due siete uguali! — ansimò.

Nicky sorrise. — Questo fa parte della faccenda — annuì. — E l’ha notato? Anche voi due siete uguali — annunciò, indicando un uomo che s’era voltato e ci fissava a bocca aperta. Lui si toccò la faccia come se temesse che gliel’avessero rubata.

— Satanasso dannato! — disse il secondo John Gribbin. Il che riassumeva perfettamente la situazione.

Quali che fossero i tranquillanti di cui ci avevano imbottito, sembrava ora che il loro effetto cominciasse a scemare. I miei compagni di gregge avevano preso a rivolgersi al nostro pastore, e non tutti in tono educato. Più diminuiva la percentuale di droga che avevo nel sangue più sentivo aumentare la sicurezza e l’autocontrollo. Come Nicky, avevo già avuto un’esperienza simile. Il saperlo non la rendeva più gradevole: cambiare linea temporale era una cosa che logorava i nervi.

Da quanto avrei potuto dire, Nicky e io eravamo i soli così fortunati del gruppo. Lì non c’era nessuno di quelli coi quali eravamo andati a Washington. L’assenza degli altri due Dom non mi avrebbe certo rovinato la vita, per non parlare dei due Larry Douglas e del russo. Ma quella di Nyla era molto più dura da mandar giù. Fremevo dal desiderio di chiedere a qualcuno se l’avrei rivista ancora, tutti però avevano un sacco di domande loro da fare, e sembravano assai più preoccupati e angosciati di me. — Che state combinando qui? — sbottò uno dei Gribbin. E la persona senza faccia disse: