— Sarete informati a bordo delFhover. Per favore salite, adesso: sta aspettando voi. — E si volse. Ma uno di noi lo/la afferrò per una manica, col cipiglio di chi intende: Non so che intenzioni abbia, ma appena lo scoprirò qualcuno la pagherà cara.
— Ai laboratori c’è bisogno di me! — protestò. — Abbiamo una riunione ad alto livello proprio adesso, e se non sono presente questo ci costerà metà dei fondi per il prossimo anno fiscale… — Tacque, indignato nell’udire la risata della persona senza faccia.
— Le cose di cui voi gente vi preoccupate! — esclamò lui/lei con indulgenza. — Tutti sull’hover. Presto, per favore.
Decisi che non c’era migliore alternativa che fare quanto ci veniva chiesto, e salii a bordo del veicolo. Scelsi uno dei sedili davanti, giusto alle spalle del cubicolo di vetro in cui stava il conducente, e Nicky si gettò a sedere accanto a me.
Quello che la persona senza faccia aveva chiamato un hover io l’avrei definito un «veicolo a effetto-suolo», ciò che era. Non avevo mai visto un hovercraft, ma quando sentii il rombo delle eliche sotto di noi e ci sollevammo per scivolare sul terreno impervio verso la strada seppi di che si trattava.
Uso la parola «strada» come eufemismo. Questo è ciò che era stata. Da molto, molto tempo era priva di manutenzione. Si stendeva larga e vuota davanti a noi verso il lontano profilo di una città. Non ci voleva molto a capire l’uso dell’hovercraft: niente che andasse su ruote avrebbe potuto cavarsela con le deformazioni e le spaccature di quell’asfalto. Le buche più grosse erano state riempite alla meglio, e le cunette maggiori spianate da un bulldozer, e qualcuno aveva spinto fuori strada occasionali ammassi di lamiere rugginose che una volta erano state automobili. C’erano lunghi tratti in cui le marcite avevano invaso così a fondo il percorso che dell’asfalto non restava più traccia: solo fanghiglia e cespugli da cui il nostro motore faceva schizzar via piccoli volatili. I miei occhi correvano al remoto profilo della città ogni volta che l’hover si girava da quella parte. C’era qualcosa che mi sembrava familiare…
Agitandosi eccitato nel sedile al mio fianco Nicky DeSota ansimò: — È New York! Diavolo, non ero mai stato in questa zona di New York! — Mi diede di gomito con un sogghigno. — L’hai notato? Questo affare ha l’aria condizionata!
— Già, piacevole — annuii, perché quel che diceva era vero e interessante, ma la mia attenzione s’era spostata sul cubicolo di vetro davanti a noi. Dalla nostra parte c’era uno sportello trasparente, chiuso, e disponeva di un ingresso suo. Il lui/lei che ci aveva condotti a bordo era nel sedile accanto a quello del conducente, e ciò che osservavo era quel che stava facendo. Si stava rivelando per una lei: si passò le mani sulla faccia e il velo color carne venne via, scoprendo un volto in tutto normale. E inoltre molto grazioso. Scivolò poi fuori dalla sua tuta bianca, esibendo ulteriori prove della sua femminilità, e si volse verso di noi. Nella cabina passeggeri eravamo poco meno di una ventina.
— Buongiorno — ci salutò attraverso un intercom.
Accanto a me Nicky esclamò vivacemente: — Buongiorno! — E così un paio d’altri, come quindicenni sull’autobus della scuola… all’incirca come mi sentivo anch’io in quel momento.
— Già adesso — disse, — l’effetto dei vostri tranquillanti dovrebbe essere finito, così lasciate che vi spieghi cosa vi sta accadendo. Ci sono notizie buone e notizie meno buone. Quella buona è che nei prossimi ooty-poot giorni potrete muovervi liberamente e ovunque nel mondo in cui vi trovate, ed è un mondo abbastanza piacevole. Quella meno buona è che non potrete lasciarlo mai più. — Sorrise dolcemente. Ci furono alcuni istanti di silenzio, poi la cabina si riempì di domande. Il suo sorriso non s’incrinò di un millimetro. — Non ho acceso l’interfono dalla vostra parte — disse, — così non posso sentire quello che dite. Prendetevi qualche minuto per parlare fra voi. Poi vi riassumerò brevemente quel che è successo, e perché, e ciò che vi attende. Infine avrete il modo di fare le vostre domande. Per arrivare all’albergo dove alloggerete ci vorranno ancora totter-tot minuti.
Ci dedicò un ultimo sorriso e tornò a volgersi al conduttore.
È arduo dare un resoconto ordinato e coerente di quello che fu il resto del viaggio… ci sarebbe troppo da dire. Probabilmente, se potessi ricordare i momenti della mia nascita, troverei altrettanto difficile descriverli, perché il caos di sensazioni in cui ero piombato mi sopraffaceva. E nel caos c’eravamo tutti… tutti salvo Nicky, direi, e invidiai la calma con cui prendeva quelle novità non meno dell’eccitazione con cui trovava aspetti positivi nell’intera strana faccenda.
Non potevo condividere i suoi sentimenti. Più di tutto e soprattutto continuavo a chiedermi se avrei mai rivisto Nyla…
Ogni Nyla.
Quando la donna cominciò il suo discorsetto di riorientamento ci eravamo già lasciati il mare alle spalle. Stavamo procedendo fra cumuli di macerie erbose e resti di case mezzo bruciate. Un paio di volte dovemmo farci da parte per lasciar passare hovercraft che viaggiavano in senso opposto, e i conducenti si salutarono l’un l’altro. Quelli che si dirigevano fuori città erano tutti vuoti. Nei dintorni non si vedeva un’anima viva. Scorsi tartarughe grosse come piatti da cucina che prendevano il sole sui marciapiedi, e anche un serpente arrotolato che mi parve un crotalo. Non si mosse neppure, seguendoci pigramente coi suoi freddi occhi vitrei. Vidi una volpe inseguire un coniglio in una piazza ingombra di sassi, finché lo strepito del veicolo non li mise in fuga entrambi.
E intanto ascoltavo.
La prima parte di quel che ci disse fu una sentenza d’esilio:
— L’uso incontrollato del portale conduce al caos fra i paratempi — disse severamente. — Perciò vi abbiamo messo fine. Abbiamo trasportato su questo pianeta tutti i principali responsabili della sperimentazione, e così anche tutte le persone che si trovavano in un paratempo non loro. Nello stesso tempo abbiamo reso infrequentabili i centri di ricerche in ogni paratempo, permeandoli di radioattività. Non avevamo altra scelta. L’alternativa sarebbe stata la distruzione per tutti.
Mi stiracchiai e sbadigliai. Stavamo percorrendo una lieve discesa, fra alberi fronzuti che crescevano alti su entrambi i lati. Davanti a noi c’era una piazza con alcuni edifici di una ventina di piani ancora intatti, il più grosso dei quali mi era ben noto. Avevano le finestre sfondate, e lungo i muri si arrampicava l’edera. — Fino a due anni fa — stava dicendo la donna, — questo pianeta era privo di vita umana. C’era stata una lunga guerra, che essi chiamavano la Guerra Mondiale, e qualcuno cominciò a usare armi batteriologiche. Finì con lo sterminio più completo. Tutti i primati, oltre all’uomo, morirono di quei virus, ma quasi ogni altro essere vivente sopravvisse. — Gettò uno sguardo al suo polso sinistro come se stesse consultando delle note. — Oh… non dovete preoccuparvi del contagio; il vaccino è una delle cose che vi sono state inoculate all’Accettazione. Siete stati anche ripuliti di tutti i microrganismi di cui eravate veicolo… strane pulci vi portavate addosso, voi gente! — Ci regalò un sorriso. Forse continuavamo a portarci addosso anche un po’ dei suoi tranquillanti, perché le sorridemmo di rimando. — Comunque, alcuni paratempi hanno cominciato a usare il pianeta per colonizzarlo… con gente che per una ragione o un’altra non era più ben accetta a casa sua, agitatori, scontenti e persone del genere. E naturalmente c’è un certo numero d’individui a cui piace la vita del pioniere. Ma questo verrà a vostro vantaggio, poiché c’è una struttura sociale in cui potrete inserirvi. Non sarete costretti a cercare radici o a correre dietro ai gatti per mangiare. Questa è una delle poche città che abbiamo rimesso in funzione… be’, più o meno in funzione, così la maggior parte di voi potrà coltivarsi una fattoria. Dopotutto il cibo è la cosa più importante.