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Quel giorno era trascorso in fretta. Prima del tramonto avevamo reso la nostra camera abitabile… be’, più o meno. Ci eravamo forniti di asciugamani, cuscini, altri vestiti, sapone e tutti i vari oggettini necessari ad assicurarci la sopravvivenza. Avevamo scoperto come aprire la plastica trasparente della finestra per lasciar entrare un po’ d’aria… e ci eravamo affrettati a richiuderla, perché con l’aria erano arrivati nugoli di zanzare dal groviglio di vegetazione che un tempo era stato il Central Park. Poi la riaprimmo, ma tenendo le luci spente perché gli insetti non ne fossero attirati.

Ero sfinito. Mi lavai la faccia e i denti, e mentre Nicky prendeva il mio posto al lavello indugiai a guardare il parco, una vista interessante, come aveva promesso la nostra guida, per quanto un po’ aliena. Giusto sotto di noi nella strada c’era vita, case abitate, veicoli e gente che andavano in giro; ma a trecento metri da lì iniziava una zona fatta di tenebra. Il cielo era stracolmo di stelle nitidissime, uno spettacolo di cui si era perduto il ricordo nella New York della mia linea temporale.

Abitavamo un città morta. Soltanto la piccola zona circostante l’albergo era il focolaio dell’infezione da cui il germe della vita si preparava a invadere di nuovo quelle terre.

E se la città era vuota, per me lo era mille volte di più, perché Nyla Bowquist non era lì.

Provavo una sorta di triste meraviglia al pensiero che Nyla aveva soggiornato in quell’albergo, forse in quella stessa stanza, in un tempo parallelo, il nostro. Sapevo che prendeva alloggio al Plaza quando suonava alla Carnegie Hall, distante pochi isolati. Forse s’era affacciata anche lei a quella finestra. E ciò che aveva visto erano stati prati ben curati, le giostre, il laghetto, le bancarelle allineate all’ingresso del parco, e un milione di macchine, taxi e autobus che rombavano nelle strade lungo quel perimetro. Ciò che vedevo io erano i profili degli edifici in rovina, e le luci di un velivolo che si abbassava verticalmente verso qualche spazio libero…

D’un tratto mi accorsi che accanto a me c’era Nicky, ancora bagnato dopo essersi lavato, che si passava un pettine fra i capelli. — Non è meraviglioso, Dom? — disse.

Lo guardai con un certo risentimento… risentimento ingiustificato, perché non era colpa sua se lui non era Nyla. — Di cosa parli, Nicky? Questo è il nostro esilio. Siamo inchiodati qui per sempre.

Lui annuì con simpatia. — So che è cosi per te, Dom, perché avevi molto da perdere. Io, forse, molto poco. Ma non è soltanto un esilio. È un intero nuovo mondo. Ci hanno cacciati dal Giardino dell’Eden, ma davanti a noi c’è una nuova vita che comincia.

— Io non voglio cominciare nessuna nuova vita — dissi. — E comunque, loro non l’hanno fatto per il nostro bene.

— Questo è certo, Dom — disse. Si scostò con pudore per indossare i pantaloni del pigiama. — Ma devi ammettere che qui hanno profuso molti sforzi. Soltanto riattrezzare questa zona della città per noi… hai un’idea del lavoro che significa? Far circolare l’acqua potabile quando le tubature sono fuori uso? Mettere in funzione una centrale elettrica? Ripulire via le macerie… e non parlo solo della stoffa marcia. Dev’esserci stata molta gente qui quando tutti sono morti. Cadaveri. Scheletri, almeno, e qualcuno li ha portati via prima che venissimo qui.

— Probabilmente tutto questo sarebbe rientrato comunque nei loro programmi — obiettai.

— Ma a goderne i benefici siamo noi — puntualizzò lui.

— Intanto ci hanno esiliati qui, però. E questo per il loro interesse. Sono loro a preoccuparsi di cosa gli accadrebbe se le barriere del paratempo collassassero, non noi.

Si sedette sul letto e mi guardò pensosamente. — Avrebbero potuto fare a meno di prendersi questo disturbo — mormorò. — Voglio dire trasferirci qui, provvederci di cibo, alloggio, vestiti…

— L’hanno fatto, certo. Altrimenti come avrebbero potuto bloccare le ricerche e gli esperimenti?

— Be’ — disse, tirandosi addosso il lenzuolo, — posso immaginare come certa altra gente avrebbe risolto il problema. Si sarebbero limitati a eliminarci, lo sai. Buonanotte, Dom.

Dopo la guerra franco-indocinese alcune popolazioni s’erano rifiutate di vivere sotto il nuovo governo. Molti di costoro erano venuti in America. Una tribù di montanari s’era trasferita nel mio stesso stato: ottocento emigranti che non avevano mai visto un treno, un televisore, una cucina a gas o un aspirapolvere. E si parla di shock culturale! Ma a metterli in difficoltà non erano state cose come guidare un’auto o spingere una falciatrice. Erano state le cosette che noi davamo per scontate. Come aprire una lattina di birra. Come usare una carta di credito. Perché la luce rossa significa «stop» e quella verde significa «vai». Perché uno deve orinare soltanto nel ricettacolo approvato, anche se pensava di potersi pudicamente appartare dietro un albero. Quando avevo condotto una delegazione di consiglieri comunali a dare il benvenuto ufficiale a questi Meos, alla periferia di Carbondale, certe loro cose mi avevano molto divertito, altre mi avevano impietosito.

Se uno di loro fosse stato lì con me al Plaza, forse sarebbe riuscito a cavarsela meglio. Mi sentivo confuso e sperduto allo stesso modo, e stavolta era difficile vedere il lato divertente della situazione.

Nicky e io occupammo l’intero primo giorno a impratichirci dei più elementari sistemi di sopravvivenza nel nuovo mondo. E alla sera una cosa l’avevo imparata: era più dura di quel che sembrava. Un grosso aiuto lo avemmo dalla consolle in camera nostra, che era un insieme di televisore, telefono, computer e sveglia. Quando ci fu detto che C.P.I. significava «Codice Personale d’Identità», e che ciascuno poteva scegliere il suo a patto che non superasse le undici lettere, io feci registrare Nyla amore mio. Potemmo così usarlo a accedere alla memoria, e pazientemente l’apparecchio ci insegnò molto di quel che avevamo bisogno di sapere. Dalle liste d’informazioni che ci offriva potemmo avere le risposte a elenchi di domande, fra cui varie che non avevamo ancora pensato di porre. Ci disse, ad esempio, che l’alloggio e i pasti non erano precisamente gratuiti. Ogni servizio ci veniva messo in conto, e un bel momento avremmo dovuto pagare o ci avrebbero cacciati in strada. Come volevano essere pagati? Be’, nell’albergo non mancava il lavoro per chi avesse due mani volonterose: fabbricare letti, riattrezzare le camere sui piani in cui nessuno aveva ancora messo piede, cucinare, lavare, occuparsi dei mobili vecchi. Quando poi la quarantena fosse finita ci sarebbero state le migliaia di progetti a cui servivano lavoratori, un po’ in tutto il continente, perfino nel resto del pianeta: dalla produzione ai servizi sociali le infrastrutture dovevano essere complete. I coloni volontari da cui eravamo stati preceduti avevano fatto molto, ma costoro erano semplicemente troppo pochi per potersi occupare di tutto.

E non riuscivo ancora a vedere dove avrei potuto essere di qualche utilità. Ciò di cui avevano bisogno erano idraulici, muratori, meccanici, elettricisti, gente con esperienza pratica nei lavori di base. Non c’erano richieste d’assunzione per senatori degli Stati Uniti. E non ce n’erano neppure per studiosi della fisica dei quanta, ovvero per una notevole percentuale di noi Peety-Deepies. Quelli che sarebbero meglio riusciti a rendersi utili, supposi, sarebbero stati i Gatti — le persone balzate fuori dal loro paratempo — per lo più ventiduenni dell’esercito invasore, dei quali un centinaio abitanti lì all’albergo e varie migliaia scaglionati provvisoriamente in altri quartieri della città.

Una delle cose che il terminale nella nostra camera poté fare per noi, quando avemmo imparato come chiedere, fu di localizzare le altre «Paratemporally Displaced Persons». L’elenco era in ordine alfabetico, tuttavia, e non spiegava molto: c’erano, ad esempio, diciannove Stephen Hawking, per non parlare dei nove Dominic DeSota (fortunatamente solo quattro di noi erano ancora in città. Gli altri avevano completato la quarantena, erano stati assegnati a qualche lavoro e se n’erano andati altrove). E c’era anche una serie di liste in cui eravamo elencati in base alla linea temporale di provenienza. Circa sessanta erano le persone del mio stesso paratempo…