Ma nessuna di loro era Nyla Christophe Bowquist.
Il terzo giorno, quando scendemmo per il nostro esame del sangue mattutino, notai che Nicky era nervoso. La situazione giustificava una certa ansia, a dire il vero, perché per noi era molto importante essere sani. In quanto a questo sembravamo sani. Ciascuno era arrivato dal suo paratempo portandosi dietro batteri, virus e spore di ogni genere, ma i nostri padroni di casa non gradivano le malattie. La tubercolosi, il cancro, il vaiolo e il comune raffreddore non esistevano più nel loro mondo, e neppure l’influenza, le malattie veneree e perfino la carie dentale. Non intendevano vedersele ripiombare addosso. Le iniezioni che ci avevano fatto quando eravamo addormentati avevano appunto questo scopo, e ne controllavano i risultati prelevandoci una goccia di sangue due volte al giorno. Quel che contava, per noi, era che il sangue pulito significava maggiori privilegi. Se quel giorno fossimo risultati negativi avremmo potuto lasciare il lavoro pesante sulla mobilia per la più raffinata occupazione di servire in tavola. E inoltre alla sera ci sarebbe stato concesso di uscire in strada! Almeno fino all’altezza degli altri alberghi, per cercare qualche vecchio amico della nostra linea temporale, o addirittura al di là della strada, nel parco, per respirare la stessa aria dei nativi che ci passeggiavano.
Tuttavia questo non poteva bastare a rendere qualcuno particolarmente ansioso. Dopo che avemmo dato la nostra goccia di sangue mattutina gli chiesi cosa lo preoccupava. — Il futuro, Dom — brontolò, contrariato. — Il mio futuro. Vorrei farne qualcosa di buono, visto che qui sto ripartendo da zero, solo che… solo che sembra non ci sia molto bisogno di sensali d’ipoteche in questo Eden.
— O di senatori — dissi. Ma non mi stava ascoltando.
— Ci sarà del lavoro di banca, suppongo — disse, precedendomi fra le cataste di mobili ammassati nel Giardino delle Palme. — Non ho visto niente del genere nella lista, ma a rigor di logica… solo che questa loro dannata aritmetica mi farebbe impazzire. — Se la stava cavando meglio di me in quella faccenda; i numeri binari mi angosciavano al punto che non avevo neppure cominciato a cimentarmi con loro, anche perché il nostro computer era così gentile da tradurli in numeri decimali per gli ignoranti.
Le mie parole dovettero però riuscire a penetrare, lentamente, nel nebuloso groviglio delle sue preoccupazioni, perché sbatté le palpebre e disse: — Oh, sì. Anche tu. Be’, non saprei, Dom. Cosa facevi prima di essere eletto senatore?
Risi. — Ero un avvocato.
— Ah! — annuì, comprensivo. — D’altronde non devono averne molti da queste parti, no? — Si volse a salutare con un cenno il nostro sovrintendente, che ci aveva raggiunti. — Prima le brutte notizie, Chuck — disse. — Cos’hai di nuovo da sbatterci sulle spalle questa mattina?
— Molto — rispose Chuck, conciso. Era un negro, e indossava ancora l’uniforme coi gradi di sottotenente, disinfettata. Aveva avuto il comando di un carro armato durante l’invasione, dunque era stato mio nemico, anche se questo sembrava non aver più alcuna importanza. L’unica differenza fra noi era che l’avevano portato lì ventiquattr’ore prima, cosicché lui era sovrintendente e noi uomini di fatica. — Ci sono settantacinque nuovi figli di mamma in arrivo oggi pomeriggio, perciò il nono piano dev’essere ripulito. Datevi da fare, voi due.
Già allora non mi sorprendeva più il fatto che a darci ordini fosse un Peety-Deepy come noi. Non vedevamo quasi nessun altro. Perfino la donna che ci prelevava il sangue dai polpastrelli era un Gatto… be’, ovviamente tutti quanti eravamo Gatti, visto che quel pianeta era stato deserto fino a cinque anni prima. Ma c’erano Gatti e Gatti, e i coloni originari stavano alla larga dagli alberghi in quarantena. Ogni tanto ne vedevamo entrare uno, con tanto di tuta protettiva e maschera facciale, venuto a ritirare i campioni di sangue o a portare istruzioni. Non si trattenevano mai molto.
Così quel che sapevo dei primi coloni era poco, e per lo più attinto dallo schermo del computer. L’insediamento originale non era stato opera di un solo paratempo. A metterlo in piedi era stato un miscuglio d’individui venuti da diciotto o venti mondi. La principale differenza fra loro e noi stava nel fatto che già da venticinque anni avevano appreso della reciproca esistenza, cominciando a scambiarsi informazioni.
Non erano state tutte rose e fiori per loro. Avevano passato diversi brutti quarti d’ora coi «rimbalzi balistici» prima di trovare il modo di minimizzarne l’effetto, più che altro limitandosi a stabilire canali di telecomunicazioni. I loro portali erano tenuti accuratamente sotto controllo, e quello che usavano per colonizzare il pianeta deserto era sottoposto a rigide misure cautelative.
Ma che vantaggi ne avevano avuto! Disponevano di venti mondi, non di uno, al lavoro per risolvere i problemi del paratempo. E avevano un numero venti volte superiore di ricercatori. Inoltre avevano sviluppato un sofisticato apparato per spiare in tutti i mondi che volevano.
Ciò che possedevano, in breve, era un’organizzazione di ricerca e sviluppo che procedeva a una velocità cento volte superiore alla nostra. Avevano risucchiato conoscenza da innumerevoli paratempi diversi: tecnologia dei computer da uno, ricerche spaziali da un altro, la fusione nucleare da un terzo, e poi ingegneria genetica, chimica, scoperte mediche… e chi più ne ha più ne metta. Avevano tutto questo.
E a me e a Nicky non mancò il tempo di riflettere sull’argomento mentre sudavamo al nono piano, perché Nicky quel giorno era silenzioso. Sembrava arrovellarsi nelle sue preoccupazioni personali, quali che fossero. Fu soltanto quando rovesciammo l’ultimo cassetto pieno di abiti marci e cianfrusaglie nell’ultima semidisintegrata valigia e portammo il tutto all’unico ascensore funzionante, che parve venirne fuori. Come nulla fosse osservò: — Non è poi tanto malvagio, qui. Eh, Dom?
— Questo non possiamo ancora dirlo — replicai, dirigendomi alle scale per scendere in sala da pranzo.
Lui mi affiancò, scuotendo il capo. — Per noi è dura, dato che non abbiamo avuto possibilità di scelta. Ma i primi coloni sono venuti qui spontaneamente, e credo che abbiano avuto l’idea giusta. Un intero pianeta vergine, Dom! Santo cielo, è un pensiero eccitante. Voglio dire, non abbiamo neppure bisogno di esplorarlo, o nient’altro… sappiamo già dove si trova tutto quanto.
Su un pianerottolo mi volsi a guardarlo. — Lo sappiamo in che senso?
— È sempre il nostro stesso pianeta, capisci? Tutte le sue risorse sono state cartografate. Se voialtri avevate giacimenti petroliferi in Alaska, o se gli inglesi del mio mondo li avevano trovati in Arabia… sono ancora lì, in questo mondo! Risorse pronte per noi. E laghi puliti, fiumi d’acqua limpida, foreste mai abbattute, aria pura… via, Dom, non è eccitante per te?
— M’interessa di più scoprire cos’avremo per pranzo — borbottai.
— Ah, Dom! Non puoi dire sul serio.
— Quello che voglio dire — spiegai, paziente, — è che non mi va di star troppo a lambiccarmi sul futuro, Nicky. Non mi piace l’idea di essere intrappolato qui per sempre. Vorrei poter tornare a casa mia.
Apparve pensoso ma non fece commenti. E nessuno di noi disse altro, perché avevamo altri otto piani di scale da scendere. Solo quando fummo al pianterreno e ci mettemmo in fila fuori dal ristorante si guardò attorno e mi sussurrò: — Dom? Hai mai sentito qualcuno affermare che non abbiamo nessuna effettiva possibilità di tornare a casa?