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— Be’, certo — dissi, seccato. — Di cos’altro pensi che si parli qui? Una volta che ci avranno riuniti tutti quanti chiuderanno il portale. Questo è il loro scopo basilare: tagliarci fuori, in modo che nessuno possa più provocare sconquassi coi rimbalzi balistici. Dunque siamo inchiodati qui, giusto? O credi che prima o poi potremmo costruire un portale nostro?

Scosse il capo. — No, questo non accadrà. Ci terranno puntato addosso il loro apparecchio-spia in continuazione. Non ce lo permetteranno.

— Allora non parlare come uno sciocco! — sbottai. Ero stanco, depresso e nervoso.

Anche Nicky lo era. — Chi diavolo sei per darmi dello sciocco, DeSota? — replicò. — Forse sarai stato un grand’uomo a casa tua, ma qui sei soltanto un maledetto Deepy qualsiasi!

Aveva ragione, naturalmente. Ma le abitudini sono dure a morire. E fin dall’inizio avevo preso a considerare quest’altro me stesso come un sempliciotto. Se avessi analizzato con più cura i miei sentimenti verso Nicky sarebbe venuto fuori che provavo per lui una specie di sprezzante tolleranza.

Non meritava questo. In primo luogo perché non aveva nulla che si potesse disprezzare, e poi, forse, perché ciò che in lui trovavo seccante era lo specchio in cui vedevo il lato peggiore di me stesso. Il lato con cui avevo trascinato Nyla in una relazione pericolosa e spiacevole perché non avevo il coraggio di agire rettamente… il lato che teneva aperta la porta alle altre Nyla, da cui ero stato tentato. Perché stava il fatto che lui era me, i lati buoni e quelli cattivi. Con indosso i pantaloncini e la maglietta di quel nuovo Eden, sporco della mia stessa polvere, era più simile a me di quanto non lo fosse stato mai. E lo era dentro quanto fuori.

— Nicky — dissi, dopo che ci fummo seduti a un tavolo. — Scusami.

Mi regalò un sorriso. — Niente di male, Dom.

— È solo il pensiero della gente che abbiamo contro a guastarmi l’anima — mi giustificai.

— Quelli che abbiamo contro non sono certo dei superuomini, Dom — disse con fermezza. — Sono gente proprio come noi. Ne sanno di più, perché hanno raggranellato conoscenza da più parti, ma non sono più svegli. In questo mondo corre l’Agosto 1983, come nel tuo e nel mio. Loro non sono il futuro. Loro sono noi.

Ci meditai sopra. — Be’, non hai torto — concessi. — E dunque cosa intendi dire? Che tutto ciò che dobbiamo fare è di superarli, e poi fare quello che vogliamo con o senza il loro permesso?

Lui tornò serio. — Non esattamente — mormorò. Non spiegò meglio ciò che aveva voluto dire, e io non volli insistere.

Come dovevo accorgermi più tardi — molto più tardi — questo fu uno sbaglio.

Quand’ero stato eletto al Senato avevo dovuto adattarmi da un giorno all’altro a un tenore di vita completamente nuovo. Ad esso era legata una quantità di privilegi il cui uso era fin troppo facile da apprendere: il campanello senatoriale che mi faceva arrivare subito un ascensore, non importa quanta gente fosse in attesa ai piani; il diritto al sottopassaggio con cui si potevano lasciare gli uffici del Campidoglio; la postra gratuita; le attrezzature ginniche e la sauna riservate ai soli senatori. E avevo dovuto imparare anche accorgimenti meno piacevoli, come quello di non apparire mai in pubblico senza essere rasato di fresco, o quello di rispondere sempre ai saluti dei passanti perché non potevo sapere chi fosse un membro del mio collegio elettorale. Fra una cosetta e l’altra, in quelle prime due settimane a stento ricordavo d’aver avuto una vita a Chicago.

Lì era la stessa cosa… quasi. Avevo tante cosette da apprendere che mi mancava il tempo di ripensare al mondo che m’ero lasciato alle spalle. Dimenticai i progetti di legge a cui avevo lavorato. Dimenticai la guerra che infuriava allorché ero stato rapito. Dimenticai perfino Marilyn… be’, avevo già fatto una certa pratica nel dimenticare mia moglie, ormai da un pezzo.

Non dimenticai Nyla.

Più sembrava chiaro che non l’avrei rivista mai, e più ero sicuro d’aver perduto l’unica cosa che m’importava al mondo. Tutto ciò che Nicky diceva di quel mondo era vero. Non avevo difficoltà a immaginare che dopo un periodo di transizione, in quel nuovo Eden, avrei saputo costruirmi una buona vita: fare cose utili, incontrare una donna amabile, sposarla, avere figli, essere felice… ma per quanto buona, per quanto felice, essa sarebbe stata sempre una vita senza Nyla.

Quella sensazione non mi abbandonava un istante.

Il quarto giorno fummo definiti ragionevolmente puliti, il che ci portò dei privilegi. Per prima cosa Nicky ed io venimmo assegnati alla manovra delle cibarie, lasciando ad altri quella della spazzatura: un bel passo avanti. E poi ci fu permesso di uscire in strada!

Come c’era da aspettarsi non potevamo però andare dappertutto, inoltre dovemmo prendere delle misure per non contaminare l’aria pura dell’Eden coi nostri venefici sospiri di sollievo. Ci diedero tessere d’identità da appuntarsi sul petto, tute protettive e maschere a micropori. Poi Nicky se ne andò da una parte e io dall’altra.

Ciò che avevo in mente era di cercare qualche conoscente in uno degli altri alberghi. Il computer mi aveva detto che il Dom DeSota dottore in fisica abitava all’angolo opposto della piazza, in un altro degli hotel abbandonati trasformati in Case dei Gatti.

Il giorno prima aveva piovuto molto ed eravamo stati tutti quanti chiusi in casa. L’aria era secca e fresca, e gli enormi alberi che orlavano il parco frusciavano alla brezza. In strada c’era un bel po’ di gente che bighellonava oppure s’affrettava da un posto a un altro. Alcuni di loro erano senza faccia come me, quelli che non lo erano badavano a tenersi a distanza da noialtri mascherati. Non me ne importava. Il solo fatto d’essere uscito dall’albergo mi risollevava il morale. Avrei voluto che Nyla fosse con me per passeggiare mano nella mano in quei viali ameni, ma anche senza di lei mi sentivo allegro. Quando entrai nell’atrio dell’Hotel Pierre ero perciò abbastanza su di giri, e inoltre la prima faccia che vidi mi era ben nota. Sedeva dietro il vecchio banco di registrazione e stava parlando in tono irritato in un antidiluviano telefono a cornetta. — Quale sei tu? — chiesi, e scostai la maschera. Mi rivolse una smorfia.

— Sono quello che tu hai messo nei guai nel nostro tempo, idiota! — m’informò acremente. Dunque non era Lavrenti Djugashvili né lo scienziato; era il piccolo truffatore del Paratempo Tau.

— Non sono quello a cui stai pensando — dissi. — Sono il senatore. Nicky è il mio compagno di camera, al Plaza.

— Spero che ci resti a marcire — brontolo. Riappese l’auricolare all’apparecchio e scosse le spalle. — Bah… non volevo dir questo. Non ha senso continuare a rodersi l’anima, no? Ti va una tazza di caffè?

Be’, stava cercando di essere simpatico. E aveva del caffè! Dovetti dirmi che conoscere un abile lestofante presentava dei vantaggi, di quando in quando. Ci sedemmo a parlare un po’. Io gli dissi quel poco che c’era da dire su Nicky e me. Lui mi disse più di quel che avrei tenuto a sapere su di lui. La prima notte il suo compagno di camera era stato Moe: l’uomo dell’FBI! Notò la mia espressione e si strinse nelle spalle. — Come ho detto, non c’è scopo a guardarci storto, adesso. Ti pare? — Ma poi Moe aveva trovato un altro Moe… una copia identica di se stesso, e i due avevano deciso di condividere la stanza. Come se non bastasse, a loro s’era aggiunto un altro Moe ancora, e i tre stavano progettando di andarsene insieme al termine della quarantena: forse al metanodotto che stava per essere costruito dal Texas alla California meridionale, forse con una delle squadre addette ai lavori preliminari in una delle città ancora abbandonate, forse a una diga giù in Alabama, in una località che loro chiamavano Muscle Shoals. C’era molta richiesta per scimmioni disposti a fare i lavori pesanti, disse. E… lo sapevo che Nyla era lì all’albergo?