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Non mi trattenni molto. Appena entrato andai al banco della ricezione, dove l’impiegata mi lasciò usare il suo terminal abbastanza da ottenere un nome e un indirizzo. Poi chiesi al portiere come si poteva raggiungere Riverside Drive, venni a sapere che davanti all’albergo avrei potuto prendere un taxi, e solo allora ricordai che non avevo neppure i soldi per pagarmi una corsa in taxi. O nient’altro. — Posso pagare con la mia carta di credito della California? — domandai, e lui cercò di non mettersi a ridere.

— Ha bisogno di liquido — m’informò. — Laggiù c’è l’ufficio del nostro cassiere. Se ha una carta di credito, forse potrà fare qualcosa per lei.

Poté farlo. Gli occorse l’aiuto di un computer per convincersi che non lo stavo imbrogliando, ma infine mi contò un bel mucchietto di strani dollari fruscianti e uscii in strada soddisfatto. Un provinciale nella grande metropoli, così mi aveva visto. Alcune cose non sarebbero mai cambiate!

Nel taxi esaminai le banconote, incuriosito. Era una seccatura usare le carte di credito per le piccole cose, come quando si trattava di acquistare oggetti dalle comunità indipendenti di Santa Barbara o Palo Alto, o di fare una partitina a poker il sabato sera. Queste avevano colori interessanti: verde-oro e nero da un lato, oro e scarlatto dall’altro. I numeri erano binari, naturalmente, e il materiale era diverso da qualunque altra carta per banconote avessi visto in vita mia. Nell’altra mia vita, intendo. Al tatto risultava liscia come la seta, e come scoprii quando ne raschiai un angolo con un’unghia era molto più dura della carta. L’effetto visivo era quello di una banconota, anche se le immagini della Casa Bianca da una parte e quella di Andrew Jackson dall’altra non erano disegni bensì ologrammi. Girando la banconota fra le dita la prospettiva cambiava leggermente, e altri colori apparivano nei disegni: rosso bianco e azzurro dietro Jackson, e un arcobaleno completo sopra la Casa Bianca. In un angolo c’era il nome della tipografia, una di Filadelfia — fino ad allora avevo creduto di sapere tutto su quel che organizzavano a Filadelfia — cosicché ne presi nota, scarabocchiando il meno possibile mentre il taxi prendeva tutte le buche nell’asfalto di Broadway. Alla prossima riunione del consiglio avrei proposto di pensare alla possibilità di far stampare cartamoneta di quel genere anche per noi.

Poco dopo ci fermammo sulla Riverside Drive; pagai il tassista e mi guardai attorno. L’Hudson scorreva limpido e tranquillo. Sulle alture dalla parte del Jersey crescevano alberi maestosi, e non vedevo affatto il ponte George Washington… non era stato ancora costruito, supposi, quando avevano smesso per sempre di costruire. Ma l’edificio di cui avevo l’indirizzo era in ottimo stato. Tutte le finestre avevano i vetri. Le mattonelle dell’atrio erano lucide come specchi. Mentre salivo per le scale verso il sesto piano il ronzio di un motore m’informò che quell’arrampicata non sarebbe stata necessaria: avevano un ascensore funzionante. E quando suonai all’appartamento 6-C la porta si aprì subito, ma la persona che apparve sulla soglia non era affatto quella che m’ero atteso di vedere. Era il senatore.

— Nicky! — esclamò. — Ehi, Nyla! C’è Nicky DeSota. Vieni a salutarlo!

Lei uscì dalla cucina, bella e felice e molto simile alla persona che stavo cercando — almeno quanto io ero simile al senatore — ma non del tutto, perché la differenza fu sensibile quando mi strinse la mano. Comunque ero lieto di rivederli, e fui lieto di accettare una tazza di caffè mentre ci sedevamo in soggiorno. Parlammo di quel che stavo facendo io, di quel che facevano loro, di come ci trovavamo bene lì e di quanto poco rimpiangevamo il mondo che ci eravamo lasciato dietro le spalle.

Era un vero peccato che lei fosse la Nyla sbagliata.

Però loro sapevano dove fosse quella giusta, e venti minuti più tardi ero di nuovo in strada. Diretto al Metropolitan Museum of Art. A non più di due minuti di cammino dal parco dov’ero atterrato col dirigibile.

Se il senatore e la sua Nyla erano stati sorpresi dal mio arrivo imprevisto, la Nyla senza pollici lo fu molto di più: mi fissò sbalordita, e un po’ sospettosa. — Senti, DeSota — disse subito, — tutto quel che è successo a casa nostra è roba passata. Se ce l’hai con me va bene, non ti biasimo. Ma non ho intenzione di chiedere scusa a nessuno.

— Non ce l’ho con te — risposi. — Anzi vorrei invitarti a pranzo… magari in quel ristorante dall’altra parte del parco, quello con gli alberi intorno.

— Non posso permettermelo!

— Ma io sì — dissi. — Ti va una passeggiata fin là? Così già che ci sono do un’occhiata a come mi stanno caricando il dirigibile.

Dopo qualche insistenza riuscii a tirarle fuori di bocca che fare due passi non le dispiaceva, visto che il suo orario di lavoro comunque era finito. Così attraversammo il parco e le mostrai i macchinari agricoli che venivano caricati a bordo, insieme a nastri di dati da immettere nei nostri computer, in cambio dei prodotti che avevamo venduto. Anche lei mi parlò del suo lavoro al museo. Non si trattava di un lavoro qualificato, precisò subito in tono quasi di sfida, ma era un buon lavoro. — La fortuna è stata — disse, — che quando è scoppiata la guerra al museo c’erano dei lavori in corso, perciò le cose migliori erano state coperte con cura. E queste le abbiamo trovate in buone condizioni. Ma le opere esposte al pubblico… ah! Specialmente i quadri! Io non sono in grado di restaurarli. Nessuno di noi ne è all’altezza. Però intanto li stiamo lavando per togliere il fango, e non hai idea della cautela che ci vuole per farli asciugare. Manciate di scaglie di colore sono cadute a terra da ogni quadro. Un giorno o l’altro qualcuno dovrà tirarsi su le maniche e studiare come riappiccicarle al loro posto, credo.

— Non sapevo che l’arte ti interessasse — commentai, facendola dirigere verso il ristorante. L’odore che usciva dalla cucina era appetitoso. Il locale si apriva direttamente davanti al mercato all’ingrosso, e naturalmente il cuoco si accaparrava la roba più fresca appena arrivata dalla campagna.

— Suppongo — disse lei in tono franco e spassionato, — che tu non sappia proprio niente di me, no? E forse è meglio così, altrimenti avresti ancora altri motivi per detestarmi.

Passai quella frase sotto silenzio. Il cameriere ci condusse a un tavolo e prese le ordinazioni. Cominciammo con granchi di fiume in salsa di avocados; i granchi venivano dall’Hudson, e gli avocados erano nostri, arrivati cinque ore prima e assolutamente perfetti.

— Sembra un buon lavoro il tuo — osservai, — anche se non c’è un vero bisogno di occuparsene subito, no? Voglio dire, forse per i quadri è così, ma per le altre cose… ho visto quell’obelisco che chiamano l’ago di Cleopatra, poco fa. Non può accadergli niente che non gli sia già accaduto, direi. — L’obelisco giaceva al suolo spaccato in numerosi pezzi. Aveva resistito migliaia d’anni in Egitto, ma pochi decenni a New York gli erano stati fatali.

Ripulendo gli ultimi frammenti di granchio dal guscio di un avocado lei alzò appena gli occhi. — E allora? — chiese.

— Allora mi stavo chiedendo se non t’interesserebbe un altro lavoro. Non nel tuo ramo, s’intende… non c’è molta richiesta di una polizia segreta da queste parti. Ma non ti piacerebbe dirigere un’orchestra?

Lei abbassò la forchetta. — Diri… un’orche…, Nicky! Di che accidenti stai parlando?

— Chiamami Dominic, ti spiace?

— Dominic, d’accordo. Be’, cos’è che vuoi dire? Io non ho mai diretto un’orchestra!

— Non mi hai detto che una volta ti sarebbe piaciuto suonare il violino?

— Io suonavo il violino! — Istintivamente si strinse le mani in grembo, irritata.