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A Vadim l’idea della vastità del progetto dava delle piacevoli vertigini. Sarebbero partite intere squadre di astronavi Delta, stracariche di giovani audaci, di medicinali, di sintetizzatori di cibo. Sarebbero state trasportate tonnellate di embrioni meccanici, che in mezz’ora si sarebbero trasformati in case, bioplani, stazioni meteorologiche ed altro ancora. Lui, Vadim, avrebbe trovato mille, diecimila, centomila nuovi amici!

— La flotta spaziale è in missione, — annunciò Anton.

— Come?

— Ho detto, la flotta spaziale è in missione. Ho fatto i conti: per cominciare, sarebbe necessario mandare una dozzina di astronavi Spettro. Però tutte le cinquantaquattro Spettro esistenti sono concentrate presso la EN-117 per il salto al di là della Macchia Cieca.

— Ne costruiremo delle altre, — decise Vadim.

Anton gli lanciò un’occhiata in tralice.

— Vaneggi, tanto per cambiare… Comunque, Dimka, è difficile che ti lascino tornare su Saul.

— Come sarebbe a dire: che mi lascino?

— Molto semplice. Il pianeta Saul non ha bisogno di ventenni pasticcioni ma di specialisti seri. Credi che la Terra possa privarsi di tanti specialisti?… E questo non è che la metà del problema.

— Forza! — l’incitò Vadim. — Parlami dell’altra metà.

Anton sospirò.

— Da un paio di centinaia di anni c’è un ente che non fa parlare molto di sé. È la Commissione per le Relazioni Extraterrestri. Senza il suo benestare nessun astronauta può pilotare niente. In questa Commissione non ci sono pasticcioni. C’è gente seria ed intelligente, che sa vedere le conseguenze.

Anton non scherzava, ma per ogni evenienza Vadim gli chiese:

— Dici sul serio?

— Altro che! — Anton fece scorrere un dito sui comandi ed aggiunse:

— Magari ti faccio guidare durante l’atterraggio, per consolarti… No, meglio di no. Ne ho abbastanza di cadaveri.

La navicella atterrò delicatamente nella stessa radura da dove era decollata trentanove ore prima. Anton spense il motore e per un po’ rimase seduto, accarezzando il cruscotto.

— Ebbene, — disse, — prima di tutto occupiamoci di Saul.

Vadim, rabbuiato, guardava dritto davanti a sé. Anton accese la ricetrasmittente di bordo e si collegò al servizio di pronto soccorso.

— Ambulatorio numero undici barra undici, — disse una tranquilla voce di donna.

— Abbiamo bisogno di un epidemiologo, — disse Anton. — Un uomo si è ammalato dopo una visita ad un pianeta di tipo terrestre.

Per qualche minuto la radio tacque. Poi una voce stupita chiese:

— Scusi, come ha detto?

— Vede, — spiegò Anton, — il malato non era stato sottoposto al blocco biologico.

— Strano. Va bene… la sua posizione?

— Eccola.

— Grazie, l’ho segnata. Saremo lì fra dieci minuti.

Anton guardò Vadim.

— Non prendertela, superstrutturalista, passerà. Andiamo da Saul.

Vadim si alzò lentamente. Scesero nel quadrato e videro subito che la porta della cabina di Saul era aperta. Saul e la sua borsa erano scomparsi. Lo skorcer giaceva sul tavolino.

— Ma dov’è? — chiese Anton.

Vadim corse verso l’uscita. Il portello era spalancato. Giungeva dall’esterno il frinire dei grilli nella tiepida notte serena.

— Saul! — chiamò Vadim.

Non rispose nessuno. Vadim non sapeva che fare. Camminò un poco sull’erba morbida. Dove poteva essere andato Saul, malato com’era? Chiamò di nuovo:

— Saul!

E di nuovo nessuno rispose. Soffiava un venticello caldo che accarezzava il volto di Vadim.

— Dimka, — chiamò Anton a voce bassa, — vieni qui.

Vadim tornò verso l’oblò illuminato. Anton gli tese un foglio di carta.

— Saul ha lasciato un biglietto, — disse. — L’aveva messo sotto lo skorcer.

Era un pezzo di grossolana carta grigia, coperta di ditate sporche. Vadim lesse:

«Cari ragazzi! Vi chiedo scusa per avervi ingannato. Non sono uno storico. Sono solo un disertore. Sono scappato fra voi perché volevo salvarmi. Voi non capireste. Mi era rimasto soltanto un caricatore e mi sentivo giù di morale. Ma ora me ne vergogno e torno indietro. Ma voi ritornate su Saul e fate il vostro dovere, io farò il mio. Ho ancora un caricatore intero. Vado. Addio. Il vostro S. Repnin».

— Senti, ma è proprio malato, — disse Vadim, sconcertato. — Corriamo a cercarlo!

— Leggi dall’altra parte, — disse Anton.

Vadim voltò il foglio. A grosse lettere storte c’era scritto:

Al Signor Raportführer Oberscharführer delle SS Wirth

da parte del detenuto n. 658617 capoblocco del n. 6

Rapporto

Riferisco che, a quanto risulta dalle osservazioni da me raccolte, il detenuto N. 819360 non è il criminale comune noto come Saul, ma un ex ufficiale delle forze corazzate dell’Armata Rossa, di nome Savel Petrovič Repnin, raccolto dalle forze dell’esercito tedesco presso Ržev in stato di incoscienza. Mi risulta che stia preparando un’evasione e che faccia parte del gruppo di cui ho parlato nel mio rapporto del mese di luglio del corrente anno 1943. Riferisco inoltre che questo gruppo prepara…

Qui il testo si interrompeva. Vadim guardò Anton.

— Non capisco, — disse.

— Nemmeno io, — disse piano Anton.

Una luce violenta illuminò la radura. L’elicottero sanitario Ogonëk stava scendendo lentamente verso l’astronave.

— Spiega tutto al dottore, — disse Anton con un sorrisetto ironico. — Io mi devo mettere in contatto col Consiglio.

— Che cosa gli spiego? — brontolò Vadim, guardando il pezzo di carta.

Il detenuto n. 819360 giaceva bocconi, col volto immerso nel fango al margine della strada. Stringeva ancora il calcio di una Schmeisser.

— Se l’è cavata con poco, — disse con rincrescimento Ernst Brandt, ancora pallido. — Mio Dio, ho visto le schegge del parabrezza volarmi in faccia…

— Questa carogna ci faceva la posta, — disse l’Obersturmführer Deibel.

Si guardarono intorno. In mezzo alla strada stava ferma l’automobile mimetizzata. Il parabrezza era andato in pezzi, dal sedile anteriore, impigliato nel cappotto, pendeva in fuori l’autista morto. Due soldati portavano via, reggendolo per le braccia, un ferito urlante.

— Deve essere uno di quelli che hanno ucciso Rudolf, — disse Ernst. Fece leva con la punta di uno stivale sotto la spalla del cadavere e lo rivoltò bocconi.

— Donnerwetter, — disse. — Ma questa è la borsa di Rudolf!

Deibel, storcendo il faccione grasso, si chinò, spingendo in fuori l’immenso deretano. Le guance flaccide gli sussultarono.

— Sì, è la sua borsa, — mugolò. — Povero Rudolf. Salvare la pelle nella battaglia di Mosca per poi buscarsi la pallottola di un pidocchioso detenuto…

Si raddrizzò e volse lo sguardo verso Ernst. Ernst Brandt aveva una stupida faccia rubizza e lucenti occhi neri. Deibel si voltò.

— Prendi la cartella, — borbottò, fissando tristemente l’orizzonte, dove, fra gli alberi, si intravedevano le grosse ciminiere dei forni crematori, che diffondevano un nauseabondo fumo grasso.

Ed il detenuto n. 819360 con gli occhi morti spalancati fissava il basso cielo grigio.