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E pensare che avevano paura di lasciarmi andare solo con Ščekn! Un combattente di prima classe, intelligente, con un incredibile senso del pericolo, assolutamente privo di paura, perlomeno non nell’accezione umana… Ma… ovviamente, c’è anche un “ma”. Se occorresse, mi batterei per Ščekn come per me stesso. Ma Ščekn? Non lo so. Certo, su Sarakš si sono battuti per me, hanno combattuto, hanno ucciso e sono stati uccisi per difendermi, ma chissà perché ho avuto sempre l’impressione che combattessero non per me, per un amico, ma per un principio astratto, anche se a loro molto caro… Sono amico di Sèekn da cinque anni, quando ci siamo conosciuti non gli erano ancora cadute le membrane fra le dita, gli ho insegnato la nostra lingua e ad utilizzare la linea di approvvigionamento. Non l’ho mai lasciato quando era ammalato di quelle sue strane malattie di cui i nostri medici non sono riusciti a capir niente. Ho sopportato le sue cattive maniere, le sue espressioni brusche, gli ho perdonato cose che non ho mai perdonato a nessuno. E nonostante questo, non so ancora cosa sono io per lui… Ci richiamano dall’astronave. Vanderchuze informa che Rem Zheltuchin ha trovato nel suo letamaio un fucile. Un’informazione di nessuna importanza. È solo che Vanderchuze non vuole che io me ne stia zitto. È una brava persona, si preoccupa se sto zitto. Parliamo del più e del meno.

Intanto che parliamo, Ščekn si infila nel portone più vicino. Si sente un tramestio, uno squittio, scricchiolii e grufolare. Ščekn appare di nuovo sulla porta. Mastica energicamente e si toglie dal muso le code dei topi.

Tutte le volte che sono occupato con i collegamenti, lui comincia a comportarsi da cane: mangia, si gratta, si mette a darla caccia a qualcosa. Sa perfettamente che è una cosa che non mi piace, e lo fa apposta, come se volesse vendicarsi del fatto che sono distolto dalla nostra solitudine a due.

Si scusa dicendo che era veramente troppo allettante e che non si è potuto trattenere. Io gli rispondo freddamente.

Comincia a cadere una pioggerellina gelida. Il viale davanti a noi è come velato da una foschia ondeggiante. Oltrepassiamo il 17° rione (la traversa è lastricata), passiamo davanti ad un furgone arrugginito con le gomme a terra, davanti a un edificio ben conservato, rivestito di granito, con grate arabescate alle finestre del primo piano; alla nostra sinistra comincia un parco, separato dal viale da un basso muretto.

Nel momento in cui ci troviamo a passare davanti allo sbilenco arco del cancello di ingresso, dai cespugli bagnati, ormai inselvatichiti, accompagnato da un gran rumore e da un suono di campanelli, salta sul muretto un uomo grottesco, lungo lungo e tutto colorato.

È magro come uno scheletro, ha le guance cascanti e gli occhi vitrei. Foglioline bagnate di cerfoglio gli spuntano da tutte le parti, traballano le braccia indebolite e disarticolate; le gambe nude invece si contorcono di continuo e saltellano sul posto, tanto che da sotto gli enormi gradini svolazzano da ogni parte foglie cadute e briciole di cemento bagnato.

Indossa, dalla testa ai piedi, una specie di tuta di maglia di vari colori — rosso, giallo, blu e verde — e i campanelli che porta cuciti qua e là sulle maniche e sui pantaloni suonano in continuazione mentre le dita affusolate schioccano forte e ripetutamente secondo un ritmo scoordinato. Un pagliaccio. Un Arlecchino. I suoi gesti sarebbero buffi, se non fossero così terrificanti: in quella città morta, sotto una pioggia grigia, sullo sfondo di un parco solitario, diventato ormai un bosco. Si tratta, senza dubbio, di un pazzo. Ancora un pazzo.

In un primo momento mi era sembrato lo stesso che avevamo incontrato in periferia. Ma quello aveva dei nastri colorati e uno stupido cappello a punta con la campanella in cima, era molto più basso, e non sembrava così macilento. Semplicemente erano tutti e due variopinti e tutti e due pazzi, e sembrava incredibile che i primi due indigeni incontrati su questo pianeta fossero dei clown impazziti.

— Non è pericoloso, — dice Ščekn.

— Dobbiamo aiutarlo, — rispondo.

— Come vuoi. Ci darà fastidio.

Lo so pure io che ci darà fastidio, ma non si può farci nulla, e comincio ad avvicinarmi al pagliaccio in lacrime, preparando nel guanto la ventosa con il tranquillante.

— Pericolo alle spalle! — grida Ščekn.

Mi giro di scatto, ma in quella parte della strada non c’è niente di particolare: una villetta a due piani con resti di vernice di un sinistro color viola, colonne false, nemmeno un vetro intero, l’arco di una porta al secondo piano è spalancato nelle tenebre. Una casa è solo una casa, tuttavia Ščekn la guarda fisso, la punta con un’attenzione carica di tensione. Si accoccola sulle zampe, pronto a scattare, abbassa la testa e drizza le piccole orecchie triangolari. Sento dei brividi alla schiena: dall’inizio della marcia non avevo ancora visto Ščekn in questa posizione. Dietro di noi risuonano lamentosi i campanelli, poi all’improvviso si fa silenzio. Si sente solo il fruscio della pioggia.

— In quale finestra? — chiedo.

— Non lo so. — Ščekn sposta lentamente la grossa testa da destra a sinistra. — In nessuna finestra. Vuoi che diamo un’occhiata? Ma ora è già di meno… — La testa si solleva lentamente. — È tutto. Come prima.

— Che cosa?

— Come prima.

— C’è pericolo?

— C’era pericolo fin dall’inizio. Debole. Ma poi è diventato più forte. E ora è come all’inizio.

— Uomini o animali?

— Un odio fortissimo. Non si capisce cosa sia.

Mi giro a guardare il parco. Il pagliaccio folle non c’è più e non si riesce a distinguere nulla attraverso il verde fitto e bagnato.

Vanderchuze è terribilmente preoccupato. Dètto il mio rapporto. Vanderchuze teme che sia stata un’imboscata e che il pagliaccio dovesse distrarmi. Non riesce a capire che in questo caso l’imboscata è riuscita, perché il pagliaccio mi ha effettivamente distratto a tal punto che oltre a lui non ho né visto né sentito niente. Vanderchuze propone di inviarci un gruppo di sostegno, ma io rifiuto. Il nostro è un compito da poco, e con ogni probabilità saremo noi che andremo a far da sostegno al gruppo di Espada.

Comunicazione dal gruppo di Espada: li hanno bombardati con proiettili traccianti. A quanto pare un bombardamento di preavviso. Espada continua a muoversi, noi anche. Vanderchuze è agitatissimo, ha una voce terribilmente lamentosa.

Col capitano non abbiamo proprio avuto fortuna. Il capitano dell’Espada è un Progressore, il nostro è Vanderchuze. Ovviamente c’è una ragione: Espada è un gruppo di contatto, Rem è la principale fonte di informazioni, ed io e Ščekn siamo semplicemente degli esploratori a piedi in una zona deserta e priva di pericoli. Un gruppo di appoggio. Ma se dovesse accadere qualcosa, — e qualcosa succede sempre, — ci toccherà contare solo su noi stessi. In fin dei conti il vecchio e caro Vanderchuze è solo un astronauta, una vecchia volpe del cosmo. Ha nel sangue il paragrafo 06/3 del regolamento: «In caso di scoperta, sul pianeta, di tracce di vita umana partire IMMEDIATAMENTE, dopo aver fatto sparire, nei limiti del possibile, ogni traccia della propria presenza…». E qui c’è addirittura un bombardamento di preavviso, un chiaro segno che non desiderano entrare in contatto, e ciò nonostante nessuno si prepara a partire, ma anzi continuano ad avanzare e si cacciano chissà dove…

Smette di piovere. Le rane saltellano sull’asfalto bagnato. È chiaro cosa mangino i serpenti. Ma che mangiano le rane? Le zanzare. Le case diventano sempre più lussuose. Un lusso spelacchiato e ammuffito. Una lunga colonna di camion di varie dimensioni è ferma lungo il ciglio della strada, sul lato sinistro. Evidentemente qui si teneva la sinistra. Molti camion sono aperti, nei cassoni sono accatastate masserizie domestiche. Sono le tracce di un esodo di massa, solo non è chiaro perché si siano mossi in direzione del centro cittadino. Forse si dirigevano al porto?