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Greg Bear

L’ultima fase

PRESENTAZIONE

Anche se non del tutto sconosciuto in Italia, Greg Bear è un nome relativamente nuovo per i nostri lettori. Nato nel 1951 a San Diego (California), ha frequentato la San Diego State University laureandosi in fisica e matematica, pur coltivando interessi anche in campo storico e letterario. Ha lavorato per un certo tempo al Museo Aerospaziale di San Diego, è stato commesso di libreria ed ha collaborato saltuariamente a varie pubblicazioni tecnico-scientifiche. Dal 1975 è diventato scrittore a tempo pieno. Vive a Santee (California) con la moglie, Astrid Anderson.

Pur avendo alle spalle un certo numero di romanzi e una produzione breve di tutto rispetto, Bear si è affermato solo recentemente come uno degli autori più importanti della nuova generazione. Anzi, si può tranquillamente affermare che proprio con L’ultima fase (Blood Music, 1985) l’autore ha dimostrato di saper compiere un decisivo salto di qualità, scrivendo uno dei romanzi più originali e stimolanti degli ultimi anni. Ha inoltre confermato il suo talento con un’opera di poco posteriore, Eon (1985), dove egli moltiplica gli spunti tematici e speculativi, proiettandoli in una narrazione di vasto respiro, densa e panoramica. Eon rispetto a L’ultima fase offre un’immagine diversa, ma complementare, della sua acquisita maturità narrativa.

Alcuni dei romanzi pubblicati da Bear tra il 1979 e il 1981 rivelano una spiccata tendenza verso tematiche filosofico-religiose, e comunque legate al problema della conoscenza. Tuttavia, l’indubbia tensione speculativa si risolve in una narrazione talvolta incerta e ingenuamente concettosa, oltreché stipata di materiali eterogenei. L’elaborazione di mondi e culture è spesso in bilico tra il gusto ornamentale e paesaggistico di un Vance e le bizzarre e remote creazioni metafisiche di Ian Watson, ma non ha le stesse doti di nitore ed eleganza. Questo è evidente, per esempio, in Hegira (1979), che narra della quest cognitiva di un gruppo di personaggi tra le meraviglie e i misteri di un gigantesco pianeta artificiale, oppure in Strength of Stones (1981), dove i membri di alcune fazioni religiose decidono di colonizzare un nuovo pianeta, costruendo enormi e bizzarre città «senzienti», dalle quali vengono poi scacciati. È curioso notare come le reazioni di critici e recensori siano state unanimi nel rilevare inadeguatezze di stile e squilibri narrativi, ma anche nell’affermare le grandi potenzialità di Bear, evidenti in un certo rigore speculativo, nell’ingegnosità delle concezioni, e nel tentativo di non cedere troppo facilmente ad esiti commerciali e scontati.

Alcuni segnali decisivi si possono già cogliere, d’altro canto, nei racconti più recenti, da «Petra» (1982) a «Hardfought» (1983, Premio Nebula) ed allo stesso «Blood Music» (1983, Premio Hugo e Nebula), da cui Bear ha poi tratto questo romanzo. Qualche anno fa, parlando della sua narrativa, Bear affermò di aver sempre rivolto la sua attenzione all’universo «esterno», alle vaste distese cosmiche, sottolineando però la sua intenzione di esplorare in futuro «l’immagine inferiore, speculare, dell’universo che è racchiuso dentro di noi». Difficile non vedere riflessa in questo proposito la splendida ed affascinante ipotesi al centro de L’ultima fase: lo sviluppo di cellule somatiche intelligenti, prodotte artificialmente, che trasformano gli esseri umani in complesse neo-aggregazioni di materia senziente, in una sorta di trascendenza bio-cibernetica.

Bear descrive con grande abilità un evento di natura apocalittica, ma al tempo stesso uno straordinario fenomeno di evoluzione biologica: infatti, alla geniale invenzione di un’epidemia «intelligente» unisce lo scavo analitico del processo di transumanizzazione, che si esplica nelle modalità più radicali, ovvero la riprogrammazione e trasformazione di ciò che è umano attraverso la scomposizione nei suoi costituenti elementari, e la successiva ricomposizione in una nuova dimensione di vita intelligente, la «noosfera». In virtù di questa rigorosa e lucida esplorazione delle frontiere evolutive, il romanzo di Bear interroga direttamente i rapporti tra SF e trascendenza. La narrativa speculativa, e la SF in particolare, è uno dei veicoli privilegiati per il confronto con la realtà trascendente, ovvero con ciò che si colloca al di là dei limiti umani definiti dallo spaziotempo, dalla morte, dalla biologia delle specie, dagli stessi meccanismi cognitivi. La visione classica pone la realtà trascendente al di là della natura, e quindi nella sfera del metafisico e del soprannaturale, mentre la SF (in un certo senso erede di un atteggiamento che già si coglie nella tradizione romantica) offre una sorta di razionalizzazione del trascendente, riportandolo nell’ambito della natura, entro i confini del cosmo. Certo, esso rimane nei territori dell’ignoto, ma non implica necessariamente una discontinuità con il mondo naturale. Il destino evolutivo della specie, il passaggio a stati «superiori» di esistenza, vengono interrogati facendo ricorso al mondo fisico conosciuto e ad una sua razionale, ipotizzabile estensione (biologica, psichica, intervento di intelligenze superiori, ecc). Da questo punto di vista, il romanzo di Bear è esemplare e, pur collocandosi nel solco di una ricca tradizione (Olaf Stapledon, Arthur C. Clarke), si propone come modello particolarmente rigoroso. Nel celebre romanzo di Clarke, Le guide del tramonto (Childhood’s End, 1953), a cui L’ultima fase è stato paragonato con una certa insistenza, la finalità trascendente è raggiunta attraverso un intervento «superiore», che se non è a sua volta di natura trascendente, ne costituisce un analogo razionalizzato, comunque ambiguo e indeterminato (e lo stesso vale per l’ancor più famoso 2001: Odissea nello spazio [1968]. In Bear, invece, la realtà trascendente scaturisce da cause e processi naturali (biologici e tecnologici), esplorando le più avanzate frontiere scientifiche, ai confini tra genetica e cibernetica.

L’ultima fase è comunque assai ricco di spunti e percorsi ulteriori, tra i quali si ritrovano ad esempio i toni del thriller catastrofico e della storia d’orrore. In proposito è possibile notare alcune analogie nel clima psicologico e nei meccanismi di reazione tra lo scienziato Vergil Ulam ed il protagonista del recente film di David Cronenberg, La mosca (The Fly, 1986). E per rimanere in campo cinematografico, non si può dimenticare come alcuni momenti del romanzo ripropongano l’oscillazione tra horror story e speculazione metafisica sull’informe che caratterizza un film come La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter.

Vorrei infine segnalare le suggestive valenze assunte dal processo di dissoluzione del paesaggio americano, sottilmente correlato allo scenario psicologico del romanzo (offerto dai numerosi personaggi e dall’alternanza dei punti di vista) che è esso stesso un ritratto di frammentazione e di isolamento. Sotto quest’aspetto, il processo fisico di dissolvimento/reintegrazione può essere visto, nelle parole di Colin Greenland, come «la malinconica ricerca di una comunione cosmica da parte di una libera associazione di individui frammentati, separati dalla società e privi di qualunque legame reciproco».

Ma il romanzo sintetizza questo ed altri aspetti riaffermando il tema dominante dell’evoluzione. Non a caso per lo stesso Bear l’aspetto chiave del libro è quello di mostrare come «l’uomo e la tecnologia umana siano parte di un processo evolutivo organico nel quale siamo chiamati a giocare un ruolo temporaneo ma cruciale». Questa osservazione permette inoltre di chiarire la posizione dell’autore rispetto alla recente tendenza «neuromantica» della SF (già illustrata su queste pagine): se dal punto di vista stilistico Bear è assai lontano dalle tecniche virtuosistiche di un William Gibson o di un Bruce Sterling, ne condivide però sostanzialmente l’ideologia di fondo, che (nella definizione di Norman Spinrad) si può esprimere come «l’accettazione dell’evoluzione tecnologica e dell’alterazione della nostra definizione di umanità, la romantica accettazione della modificazione tecnologica della specie».