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In fondo, la domanda implicita nel romanzo è la stessa recentemente rivolta da Bear ai partecipanti di un convegno: «Quanti di voi sono veramente convinti che tra cinquant’anni il nostro aspetto sarà ancora riconoscibilmente umano?». Molte furono le mani alzate, e pronta la replica dell’autore: «Siete tutti in errore». Ed è la stessa risposta che Bear ci ha dato con L’ultima fase.

Piergiorgio Nicolazzini

INTERFASE

Ogni ora, miriadi di trilioni di minuscoli esseri viventi — microbi e batteri, i contadini della Natura — nascono e muoiono, del tutto irrilevanti se non fosse per l’enormità del loro numero e l’effetto cumulativo delle loro microscopiche esistenze. Essi non percepiscono vere sensazioni, non soffrono. La morte di cento miliardi di loro non conta neppure una frazione di quella di un singolo essere umano.

Considerate nella loro totalità queste creature, siano piccole come i microbi oppure grandi come gli uomini, si equivalgono nello «slancio vitale», proprio come le fronde di un albero possente riunite assieme equivalgono alla massa dei rami sottostanti, e come la massa dei rami equivale a quella del tronco.

Oggi ne siamo certi con la stessa fermezza con cui i Re di Francia erano certi del loro diritto alla discendenza ereditaria. Quale, fra le generazioni future, verrà a darci torto?

ANAFASE

GIUGNO-SETTEMBRE

I

La Jolla, California

Una lastra rettangolare nero-ardesia incoronava un monticello, verde di trifoglio coreano fitto e brillante, aureolato di iris e racchiuso in un ruscelletto in cemento scuro pieno di koi. Sul lato verso la strada la lastra recava scolpito in rosse lettere romane GENETRON e, sotto il nome, un motto: «Qui le piccole cose portano a grandi mutamenti».

I laboratori Genetron e gli uffici amministrativi erano ospitati in una spoglia e massiccia costruzione a «U» stile Bauhaus, che racchiudeva un giardino quadrangolare. L’edificio aveva due piani, e balconate che correvano intorno all’intera circonferenza. Di fronte al giardino, oltre un prato su cui non era stato ancora piantato un solo filo d’erba, sorgeva una struttura cubica di vetro nero a quattro piani, cinta da una rete metallica elettrificata.

La Genetron non celava le sue due facce: i laboratori aperti, dove si conducevano ricerche biologiche, e l’edificio riservato ai contratti col Ministero della Difesa, in cui se ne studiavano le applicazioni militari.

Anche i laboratori aperti erano soggetti a rigide procedure di sicurezza. Tutti gli impiegati portavano targhette d’identità incise a laser, e l’ingresso dei non addetti era accuratamente controllato. La direzione della Genetron — cinque laureati di Stanford che avevano fondato la compagnia appena tre anni dopo aver finito l’università — pensava che fosse più probabile un atto di spionaggio industriale nel reparto amministrazione che una fuga di notizie dal cubo nero. Tuttavia negli uffici regnava un’atmosfera serena, e si faceva il possibile per mettere in opera le misure di sicurezza col guanto di velluto.

L’uomo alto, dalle spalle un po’ curve e con disordinati capelli neri, si districò dallo stretto abitacolo della Volvo sportiva rossa e mentre attraversava il parcheggio degli impiegati starnutì due volte. In quei primi giorni d’estate la vegetazione emetteva già nebbioline di polline irritante. Salutò con noncuranza Walter, il robusto e segaglino guardiano di mezz’età. Con altrettanta noncuranza, apparente, l’uomo controllò la sua targhetta facendola passare sotto il lettore laser.

— Sembra che stanotte non abbia dormito molto, non è vero, Mr. Ulam? — chiese Walter.

Vergil scosse il capo, con una smorfia. — Cocktail party, Walter. — Aveva gli occhi gonfi, e il naso arrossato dal continuo sfregamento del fazzoletto che ora, umido di muco, riposava appallottolato in una tasca.

— Come riesca un uomo indaffarato come lei a fare le ore piccole fra due giorni lavorativi, è una cosa che non capisco.

— Le signore hanno le loro esigenze, Walter — commentò Vergil, passando oltre. Il guardiano annuì con un sogghigno, benché dentro di sé dubitasse che Vergil si desse troppo da fare con le donne, cocktail party o meno. Per quanto i costumi si fossero rilassati dai suoi tempi, Walter sapeva che un uomo con la barba di una settimana difficilmente s’era dedicato ad avventure galanti.

Ulam non poteva vantarsi d’essere la figura più affascinante della Genetron. Superava l’1,85 d’altezza e camminava su larghi piedi piatti. A 32 anni soffriva d’artrosi dorsale, era una dozzina di chili al di sopra del peso-forma, aveva la pressione alta, e non avrebbe mai potuto radersi abbastanza a fondo da eliminare un’ombra scura sulla mandibola.

La sua voce sembrava la meno adatta a chi volesse conquistarsi degli amici: rauca, dura, tendente ad alzarsi troppo. Vent’anni in California avevano smorzato il suo accento texano, ma quando si eccitava o era irritato la secca parlata del Panhandle tornava a farsi sentire col suo tono tagliente.

Il suo solo punto a favore era costituito da due bellissimi occhi verde-smeraldo, larghi ed espressivi, ombreggiati da lunghe ciglia quasi sensuali. Erano tuttavia occhi più decorativi che funzionali, perché lo costringevano a portare un grosso paio d’occhiali dalla montatura nera. Vergil era piuttosto miope.

Si avviò su per le scale a lunghi passi, divorando due o tre scalini alla volta e facendo risuonare il marmo sotto le scarpe. Al primo piano imboccò il corridoio che immetteva nella sala-apparecchiature del Reparto Biochip Prototipi, conosciuta anche come il laboratorio comune. La sua mattinata di solito cominciava con un esame dei campioni rimasti in una delle cinque ultracentrifughe. La sua infornata più recente stava ruotando da sessanta ore a 200.000 giri/min, e adesso era pronta per l’analisi.

Per un uomo della sua mole Vergil aveva mani sorprendentemente delicate. Estrasse dall’ultracentrifuga il costoso rotore di titanio nero e richiuse il contenitore a vuoto in lucido acciaio. Depose poi il rotore su un bancone da lavoro, staccò le cinque tozze provette di vetro dai supporti sotto il volano fungoidale e gettò un’occhiata al loro contenuto. Sul fondo di ciascuna s’erano formati parecchi strati in diverse sfumature di marrone.

Le nere sopracciglia di Vergil s’inarcarono e si corrugarono, mentre allineava davanti a sé i cinque spessi contenitori. Annui fra sé e sorrise, mettendo in mostra denti che un’infanzia trascorsa in una zona di acqua a eccessivo contenuto di fluoro aveva reso un po’ scuri.

Stava risucchiando fuori la soluzione inerte e gli strati che non lo interessavano quando il telefono del laboratorio squillò. Depose la provetta in una rastrelliera e sollevò il ricevitore. — Laboratorio comune, qui Ulam.

— Vergil, sono Rita. Ti ho visto entrare, ma non ti ho trovato nel tuo laboratorio…

— Stamane il mio indirizzo è qui, Rita. Che c’è di nuovo?

— Mi avevi chiesto… cioè mi avevi pregato di farti sapere se una certa persona fosse arrivata. Penso che sia qui, Vergil.