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— Cosa te lo fa pensare?

— Il fatto che abbiano cercato di salvare il più gran numero possibile di noi, per qualcosa che verrà dopo.

— Il Grande Cambiamento?

— Sì.

Paulsen-Fuchs fissò Gogarty negli occhi, poi scosse il capo. — Io sono troppo vecchio — disse. — Sai, vedere l’Inghilterra così mi ha ricordato la guerra. È così che l’Inghilterra doveva essere durante… quello che voi chiamate il Blitz di Hitler. Ed è così che la Germania era diventata alla fine della guerra.

— Sotto assedio — disse Gogarty.

— Sì, ma noi esseri umani abbiamo un equilibrio chimico molto delicato. Credi che i noociti stiano cercando di tenere basso l’indice di mortalità?

Gogarty scosse ancora le spalle e prese la lettera. — L’avrò letta migliaia di volte nella speranza di trovare una risposta a questa domanda. Niente. Neppure un accenno. — Sospirò. — Posso solo azzardare ipotesi.

Paulsen-Fuchs finì il suo toast. — L’altra notte ho fatto un sogno molto nitido — disse. — Ho sognato che mi veniva chiesto quante strette di mano avevo avuto da qualcuno che viveva nel Nord America. Credi che questo abbia un significato?

— Non ignorare alcuna ipotesi — disse Gogarty. — Questo è il mio motto.

— Cosa dice la lettera adesso? Leggila un po’.

Gogarty riaprì il foglio e prese accuratamente nota del messaggio. — Più o meno lo stesso — disse. — Aspetta… c’è una parola in più: grandi cambiamenti presto.

Uscirono a fare una passeggiata per godersi il sole che appariva e spariva, con gli stivali che facevano scricchiolare la neve e la comprimevano in ghiaccio. L’aria era rigida, ma spirava appena una lieve brezza. — C’è qualche speranza che tutto rimbalzi di nuovo indietro, tornando alla normalità? — domandò Paulsen-Fuchs.

Gogarty si strinse nelle spalle. — Direi di sì, se fossimo alle prese con quelle che erano le leggi di natura. Ma le affermazioni di Bernard non sono molto incoraggianti, vero?

— Io sono un ignorante — disse Gogarty esalando una nuvoletta di vapore. — Com’è rilassante poterlo dire. Ignorante. Sono sottoposto alle forze naturali come quell’albero. — Indicò un vecchio pino contorto su un’altura oltre la spiaggia. — La carta dell’attesa è l’unica che può giocare.

— Allora non mi hai invitato qui per vedere se possiamo trovare una qualche soluzione.

— No. Naturalmente no. — Gogarty sperimentò con un piede la resistenza di una lastra di ghiaccio. La spaccò, ma sotto non c’era acqua. — Solo… mi sembrava che Bernard ci volesse qui, o perlomeno insieme.

— Sono venuto qui sperando in qualche risposta.

— Spiacente.

— No, questo non è del tutto vero. Sono venuto perché non ho più un posto in Germania. Né da altre parti. Sono un dirigente senza un’industria, senza un lavoro. Sono libero per la prima volta in molti anni, libero di rischiare.

— E la tua famiglia?

— Come Bernard, mi sono lasciato alle spalle diverse famiglie in qualche decennio. Tu ne hai una?

— Sì — disse Gogarty. — Erano nel Vermont l’anno scorso, in visita ai genitori di mia moglie.

— Mi dispiace — mormorò Paulsen-Fuchs.

Quando tornarono in casa, per farsi una tazza di caffè caldo e mettere un pesce fresco sulla graticola, la lettera di Bernard diceva:

Cari Gogarty e Paul,

Ultimo messaggio. Pazienza. Quante volte ti ha stretto la mano qualcuno che ora è andato via? Una stretta di mano. Niente è perduto. Questo è l’ultimo giorno.

Bernard

Entrambi la lessero. Gogarty la ripiegò e la mise al sicuro in un cassetto. Un’ora dopo, spinto da un impulso simile a una premonizione, Paulsen-Fuchs riaprì il cassetto per dare un’altra occhiata alla lettera.

Non c’era più.

XLVI

Londra

Suzy si appoggiò al davanzale della finestra e aspirò una lunga boccata d’aria fredda. Non aveva mai visto nulla di così bello, neppure il bagliore dell’East River quando aveva attraversato il ponte di Brooklyn. Lo sfolgorio della neve era uniforme, la ipnotizzava come un surreale presagio che annunciasse la fine d’un mondo diventato pazzo. Era più che sicura di questo. Nei nove mesi che aveva trascorso a Londra, in quel piccolo appartamento messole a disposizione dall’ambasciata americana, aveva visto la città rallentare fino a un tremante e spasmodico arresto. Si era isolata in casa, limitandosi a sbirciare dalla finestra, e aveva contato sempre meno auto e carri, sempre meno gente in strada perfino quando la neve luminosa era scarsa, e poi…

Meno gente per strada, s’era detta, significava più gente in casa. Un’addetta dell’ambasciata americana veniva a farle visita una volta alla settimana. Si chiamava Laurie, era decisamente graziosa, e talvolta portava con sé Yves, il suo fidanzato, che malgrado il nome francese era americano di nascita.

Laurie veniva sempre portandole borse piene di roba da mangiare, libri per ragazzi e riviste, portando notizie… quelle poche che c’erano. Laurie diceva che le onde elettromagnetiche stavano diventando sempre più imprevedibili. Questo significava che nessuno ormai faceva molto uso della radio. Suzy aveva ancora la sua, benché non funzionasse dal giorno in cui le era caduta proprio mentre saliva sull’elicottero. Si era rotta e non produceva neppure scariche e fruscii, ma era una delle pochissime cose che sentiva sue.

Si scostò dalla finestra e chiuse gli occhi. Ricordare tutto ciò che era accaduto la faceva soffrire. Il senso di perdita, la solitudine, il vuoto che s’era sentita salire dentro in quella Manhattan piatta e desolata. Soltanto due settimane più tardi era atterrato l’elicottero, per condurla al grosso idrovolante ammarato al largo della costa…

Poi era stata trasportata attraverso l’oceano in Inghilterra, e le avevano trovato un appartamentino — ammobiliato — a Londra, un posto intimo e piacevole dove per la maggior parte del tempo si sentiva a suo agio. E Laurie veniva a portarle tutto ciò di cui aveva bisogno.

Ma quel giorno non s’era vista, e col buio non era mai venuta. La neve era molto spessa e molto luminosa. Incantevole.

Stranamente Suzy non si sentiva affatto sola.

Chiuse la finestra per tenere fuori l’aria fredda. Poi si fermò davanti all’alto specchio dello sportello del guardaroba e osservò lo scintillio dei fiocchi di neve che presi nei suoi capelli cominciavano a fondersi. Questa vista la fece sorridere.

Aprì l’armadio e guardò nella penombra dentro di esso. Il termosifone gorgogliava, proprio come quello di casa sua. — Salve — disse ai vestiti appesi alle poche grucce. Tirò fuori l’abito lungo che aveva indossato alla festa da ballo all’ambasciata sei mesi prima. Era di un bellissimo verde smeraldo e le stava meravigliosamente.

Da allora non l’aveva più messo, e questa era una vergogna.

Stando vicina al termosifone si tolse quello che indossava, quindi aprì la lampo sul dietro dell’altro e lo infilò, lisciandosi la parte bassa sulle ginocchia. La gonna si corresse.

Non l’avrebbero presentata alla regina senza un abito di quel genere, le aveva sussurrato Laurie. Questo le era parso sensato.

Si tirò su le spalline e fece scivolare i seni nelle coppette della scollatura. Poi tirò su la lampo fin dove ci riusciva e tornò allo specchio, tenendo ferma la testa ma girando il corpo da una parte e dall’altra, e sorrise a se stessa. Nei primi mesi era stata molto popolare all’ambasciata. Tutti la trovavano attraente. Ma il traffico s’era fatto sempre più problematico, l’ambasciata era lontana, e pian piano avevano smesso di cercarla.