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Paco abbracciò Javier passandogli un braccio intorno al collo e lo baciò sulla fronte.

«¿Eso es un toro, no?»

Uno dei banderilleros di Pepe, straordinario nel piantare le banderillas, si chinò al punto che le corna gli sfiorarono quasi l'ascella: un momento di immobilità assoluta, tutti trattennero il respiro nell'istante in cui uomo e animale furono quasi una cosa sola, poi i due si separarono come per miracolo.

Pepe avanzò per la faena e nella folla si creò il silenzio più puro di tutta la Spagna: il silenzio del rispetto per il toro.

Biensolo, le fauci serrate, i muscoli del dorso contratti, una striscia rossa di sangue che gli correva lungo il fianco destro fino alla zampa anteriore, fissò Pepe. Il giovane dispiegò la muleta in tutta la sua estensione e s'incamminò, a ogni passo puntando verso il toro la punta del piede e tenendo la cappa dietro di sé. Biensolo aspettava paziente. A quattro metri dal toro, Pepe si girò di fianco, distese il braccio e lentamente gli mostrò la muleta, come se volesse dirgli: «Posso offrirtela?» Il toro si lanciò all'attacco, le corna abbassate, ma Pepe parve dominarlo, costringendolo a rallentare, e solo quando il muso toccò la muleta permise all'animale di spingersi avanti, attirandolo, dicendogli che era quello, sì, l'incedere reale. E fu una cosa bella da vedere, la graduale torsione del corpo di Pepe, cedevole e forte come ferro battuto incandescente.

Il torero condusse Biensolo avanti e indietro e a ogni passo la danza si faceva più bella, il rapporto tra l'uomo e l'animale più forte, il reciproco rispetto diveniva più profondo. Un processo così lento che la folla non si accorse che il contatto si era stabilito, che il patto era stato accettato, che il torero e il toro avrebbero continuato nella loro rappresentazione fino all'unico finale possibile.

In nessun punto della faena Pepe cercò di soggiogare del tutto l'animale, perché lo aveva compreso fin dal primo momento nell'arena: quel territorio era di Biensolo ed era stato Biensolo a permettere a Pepe di entrarvi.

Eseguì i naturales e il toro gli tuonò accanto come se stesse sospingendo tutta la Spagna con le corna; si fermò davanti all'animale e, tenendola dietro di sé, gli mostrò soltanto un angolo della muleta, non più grande di una piastrella di terracotta. Alcune donne tra il pubblico non riuscirono a trattenersi e si udirono qua e là piccoli strilli di paura. Biensolo si avventò su di lui, quasi sfiorò la figura solitaria, canna al vento leggermente piegata dalla corrente. Senza girarsi, Pepe gli mostrò un altro angolo della muleta e di nuovo il toro si precipitò all'attacco, passandogli vicinissimo. A quel punto nemmeno gli uomini si trattennero. Paco si premeva i pugni sugli occhi. L'uomo accanto a lui piangeva. Sapevano ormai che cosa stavano vedendo, l'espressione impossibile del genio dell'uomo e del toro nella loro danza di morte.

Il silenzio era così assoluto quando Pepe si allontanò per cambiare la spada dritta con quella curva, la lama per uccidere, che Javier credette di udire il rumore dei passi sulla sabbia della plaza. Il toro lo fissava, le zampe anteriori leggermente divaricate, la spalla ancora impiastrata di sangue, la cassa toracica sollevata in muggiti silenziosi mentre le banderillas gli battevano un ritmo di morte sulla groppa. Il suo compagno nella danza tornò, la muleta sotto il braccio, la nuova spada letale al fianco. L'ombra allungata di Pepe sulla sabbia incontrò la testa del toro e la coprì.

Le corna si rialzarono. Il contatto tra l'uomo e il toro si ristabilì. La folla, sapendo che, se avesse ucciso bene il toro, Pepe avrebbe avuto tutto, orecchie, coda, La Puerta del Príncipe, rimase in silenzio, un silenzio assoluto. Pepe liberò la muleta, che ricadde come una pozza di sangue, e il toro annuì, come accettando la gentile collaborazione dell'uomo. Pepe osservò la posizione degli zoccoli e con una serie di passi appena accennati manovrò in modo da portare il toro verso la barriera, quindi lo stuzzicò con scatti improvvisi della muleta finché l'animale non si trovò al posto giusto, le corna rivolte verso la folla della Sombra. Poi, ora che dava le spalle a Javier, si mosse, leggero come se temesse di disturbare un bambino addormentato, levò alta la spada e mirò al bersaglio grande come una moneta sul collo del toro, puntando i piedi con forza sulla sabbia. Il suo corpo non era più quello di un uomo, aveva assunto la forma di un elegante uccello di palude.

Il momento. Le due forze si scontrarono con un impeto da togliere il fiato.

Momento sbagliato. La testa di Pepe si rialzò, la spada incontrò l'osso e venne deviata, il corno destro del toro si infilò nella parte interna della coscia e, con uno scatto, Biensolo scaraventò in aria il torero, un movimento così rapido che nessuno si mosse mentre Pepe volteggiava nel vuoto, spinto dalla trionfale potenza del corno. Poi il corpo sottile ricadde, spezzato come quello della vittima di un torturatore, e il corno scomparve nel ventre dell'uomo. Il toro si avventò, a testa bassa, stimolato da un riflesso atavico ora che il patto tra loro era stato infranto, trafisse l'uomo, urtando le assi della barriera in uno schianto di schegge che parve risvegliare di colpo tutti gli astanti.

La squadra di Pepe si slanciò oltre il muro, l'immobilità abbandonò la folla e un urlo acuto si levò dalle donne. Javier si precipitò giù dalla gradinata, scavalcando le teste degli spettatori inorriditi, con un balzo raggiunse la barriera dove Pepe era inchiodato. Il toro infieriva sulla sua vittima con forza rinnovata e formidabile. Pepe stringeva il corno con entrambe le mani, come un generale che, resosi conto della disfatta totale, avesse deciso di suicidarsi. Sul volto solo la tristezza del rimpianto.

Gli uomini della squadra tentarono di distrarre il toro, delle mani si sporsero al di là della barriera per sorreggere Pepe, le cui gambe dilaniate, con un orribile squarcio rosso là dove l'arteria femorale pompava sangue spesso, scuro, vitale, venivano sbattute contro le assi di legno.

Il toro si tirò indietro, girandosi con ferocia verso le cappe che gli sventolavano intorno, e fissò a uno a uno gli assalitori come un imperatore vittorioso ma impopolare che dovesse sopportare i fastidi della politica del tempo di pace.

Pepe fu sollevato oltre la barriera, le braccia spalancate, la chiazza rossa sempre più grande sullo stomaco e per un momento, mentre veniva trasportato a rotta di collo verso l'infermeria, fu una visione dolorosa, simile a una Pietà.

Javier corse dietro gli uomini che sorreggevano Pepe e il ragazzo protese una mano verso di lui. La notizia si era diffusa rapidamente e i soccorritori non persero tempo in infermeria, ma lo trasportarono direttamente verso la barella che il personale paramedico caricò sull'ambulanza in attesa.

Pepe chiamò Javier, la voce poco più di un soffio.

Falcón scavalcò la schiena di un infermiere che stava già tamponando lo squarcio aperto nello stomaco di Pepe. L'ambulanza uscì a tutta velocità dalla plaza. L'altro paramedico tagliò i pantaloni e affondò la mano nello squarcio spalancato nella coscia. Pepe si inarcò, lanciò un urlo straziante, l'uomo chiese con urgenza le pinze, Javier afferrò al volo il pacchetto che gli veniva gettato, lo aprì e porse le pinze all'infermiere che cercava l'arteria nella ferita. Javier prese la mano di Pepe, gli cullò la testa in grembo. Il viso era esangue, il pallore della morte lo stava invadendo. Javier gli afferrò le spalle, gli sussurrò nell'orecchio ogni frase che immaginò potesse aiutarlo a resistere.

L'ambulanza percorse veloce Cristobal Colón, le sirene urlanti, si immerse nel sottopassaggio di plaza de Armas. Pepe si passò la lingua sulle labbra, la bocca asciutta come cartone per la catastrofica perdita di liquidi, la mano fredda come carne morta. Un paramedico tagliò la manica del traje de luces e afferrò un sacchetto di plasma nel frigorifero. L'altro chiese a gran voce le pinze e Javier, curvo su Pepe, lo aiutò a bloccare l'arteria femorale, poi si girò per assistere nella trasfusione di un litro di sangue nel braccio di Pepe. Gli urlò di tenere duro, vide che il ragazzo cercava di parlare e accostò l'orecchio alle sue labbra. Perfino il respiro era gelido.