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E c’era anche Slider, ma non si era mai sicuri, con Slider, da quale parte si trovasse. Lo stesso Paul si gettò nella mischia: estrasse dalla guaina che gli pendeva dal fianco un lungo coltello, prese la mira e colpi. Anche Paul sapeva qualcosa della struttura di quei meccanismi. Molti bastava colpirli alla base della terza piastra centrale per troncare i collegamenti e renderli innocui. Paul quindi colpì, e troncò i collegamenti e la vita, perché era stato un uomo e non un meccanismo a scagliarsi contro di lui. Un uomo mascherato da Assassino programmato! Ad aumentare la confusione, dunque c’erano esseri umani da entrambe le parti.

— Ora è il momento! — La voce di Rimrock, l’ansel, sibilò nel cervello di Paul. E Rimrock, tuttavia, stava lottando con uno degli Orsi d’acciaio e non sembrava minimamente sapere deve fosse Paul. Ma le azioni dell’ansel erano sempre imprevedibili.

Paul, nuovamente libero, balzò fuori della mischia e si tuffò nell’astronave. Foreman aveva fatto pervenire il suo segnale di permesso, e questa volta non ci furono problemi con l’antifurto. Paul si diresse subito verso lo spazio.

Era stata una curiosa e amara battaglia, brevissima e mortale. Almeno due umani e una mezza dozzina di meccanismi erano stati uccisi. Col tempo si sarebbe spiegata, perché non era conclusa. Sarebbe stata combattuta altre volte, con nuove varianti.

Ma Paul era libero, e aveva spiccato il volo; l’intero suo corpo era un groviglio di dolori, era stordito a causa del sangue perduto, ma stava volando e non l’avrebbero più raggiunto. Paul figurava sulla lista dei condannati a morte dagli Assassini programmati, in quanto nemico dell’Ideale di Astrobia, e tuttavia era in missione al servizio dei tre grandi, la Cerchia interna dei Maestri, i difensori supremi di quell’Ideale.

Paul aveva continuato a fischiettare allegramente, in quei momenti in cui aveva abbastanza fiato per farlo, durante la battaglia in cui aveva ucciso un uomo e fracassato un Programmato. Anche adesso fischiettava allegramente, a bordo dell’astronave di Foreman; qualcosa d’incomprensibile per tutti quelli che si erano trovati nella mischia (fatta eccezione per l’ansel). E fischiettava ancora quando si trovò nello spazio di Hopp.

Un taglio netto, una frattura. Niente è più come nello spazio normale. Le persone e le cose non sono più le stesse persone e le stesse cose di prima.

Astrobia è a circa un parsec e mezzo dalla Terra. Alla velocità della luce ci vorrebbero cinque anni per compiere il viaggio. Ma con l’equazione di Hopp il viaggio dura soltanto un mese terrestre, circa settecento ore standard.

La nave di Paul sarebbe scomparsa, lungo l’intero parsec e mezzo che la separava dalla Terra, ma per il pilota a bordo sarebbe stato l’intero universo esterno a scomparire. Per lui, niente più movimento, pianeti o stelle per tutto il viaggio, nessuna sensazione di tempo o di durata.

Strane cose accadevano al pilota e ai passeggeri durante il viaggio nello spazio di Hopp, quando il resto dell’universo scompariva. Paul, ad esempio, diventava mancino. Non solo, ma si verificava in lui un’inversione totale. Aveva saputo, dalle battute scherzose degli altri piloti, che anch’essi erano vittime di questo rovesciamento assoluto. Si raccontavano più barzellette su questo argomento che su qualsiasi altro aspetto della tradizione spaziale, anche perché i viaggi con l’equazione di Hopp erano assai recenti.

Ma accadeva, tutte le volte: un rovesciamento totale della polarità di un individuo. Che incredibile sensazione!

— Oh, in fin dei conti è l’unico modo, per me, di cantare da soprano — era solito consolarsi Paul; e lo faceva spesso, in quelle condizioni.

Paul cercava di appisolarsi, durante il viaggio, ma subito il sistema di controllo a bordo se ne accorgeva, e non gli consentiva di dormire più di novanta secondi alla volta. Tuttavia, vi si era assuefatto. Anche in novanta secondi si possono fare i sogni più intricati.

Paul calcolò di aver fatto almeno ventimila memorabili sogni durante il passaggio. Ciascuno di essi era un piccolo gioiello, completo in ogni parte, perfettamente sincronizzato e totalmente diverso dagli altri. Tutti avevano una vita breve ma indipendente; molti abbondavano di personaggi e d’avvenimenti; altri erano piacevolmente rilassanti; altri ancora pieni di nostalgia per cose mai viste prima ma chiaramente ricordate; altri, infine, erano puro orrore, al di là degli incubi più atroci. Le leggi della conservazione della totalità psichica non erano in alcun modo violate. Si era psicologicamente coscienti per quattro anni e mezzo, ma i quattro anni e mezzo venivano compressi in un mese, e questa compressione trovava sfogo nella rapidità e nell’intensità dei sogni.

Vi sono grandi masse di relitti psichici nello spazio di Hopp, pronti ad aggredirvi. Qualsiasi cosa dolorosa, qualsiasi episodio comico, orrendo o esaltante che siano accaduti in una qualsiasi epoca vagano ancora nelle profondità dello spazio. I relitti di miliardi di menti che si disperdono ma non svaniscono mai.

Rimrock appariva in molti sogni. Gli ansel sono creature molto notevoli, sotto l’aspetto mentale; erano già parte dell’inconscio umano prima ancora di essere trovati su Astrobia.

Altre immagini turbinavano per pochi attimi nei sogni di Paul, ricordi del suo anno di fuga, dell’ultima fuga allo spazioporto. Paul non aveva mai paura nei momenti di pericolo. I terrori lo assalivano più tardi, nei sogni; molti affioravano proprio nel passaggio. Gli uomini e i meccanismi morti nell’ultima battaglia popolavano molti dei suoi sogni; soprattutto gli uomini morti da poco hanno dei connotati psichici intensi.

Paul sognava spesso di un ragazzo chiamato Adam, che moriva sempre in battaglie cavalleresche, evitando così la sventura di dover crescere. Morire era l’unica cosa che sapeva far bene. E sognava anche la sorella di Adam, una strega bambina che aveva deciso di andare all’inferno prima di morire. Paul non sapeva se li aveva incontrati già prima, se li avesse conosciuti soltanto nei sogni, o se fosse destinato ad incontrarli in futuro. E perché mai Adam continuava a morire? — No, no — gli aveva spiegato Adam. — è un’unica morte, soltanto una morte. è sempre un altro che muore col mio stesso nome! — Paul sognava anche del mostro Ouden, e della sua stessa morte, quando sarebbe venuta, ben sapendo che quanto sognava era la realtà.

Ma non tutti i sogni incontrati nel passaggio erano così concreti e ossessivi. Alcuni erano deliziosi: a tutti piace ascoltare storie affascinanti mentre, immobili, vanno alla deriva nelle profondità dello spazio.

Ehi, eccone uno! Era un terrestre vissuto qualche centinaio d’anni prima di Paul, John Sourwine, ovvero Johnny Aceto. Paul era diventato Johnny Aceto, raccontava e viveva nello stesso tempo l’eccentrica vicenda.

A causa della dieta che aveva seguito fin dalla giovinezza (alcool, tarli, lumache verdi), un rene di Johnny Aceto si era vetrificato in modo tutto particolare. Non soltanto si era trasformato in vetro, ma in un vetro di un delizioso color verde smeraldo. Lui stesso aveva potuto constatarlo al fluoroscopio.

Accadde che Johnny Aceto e alcuni amici si trovassero a Ghazikhan, in quella che era l’India sulla Vecchia Terra, e stessero ammirando il gigantesco idolo che si trovava laggiù. Avevano saputo che l’occhio centrale dell’idolo, uno smeraldo grosso come un uovo di struzzo, valeva undici milioni di dollari. Johnny Aceto ritornò alla sua nave e considerò il fatto.

— Ghazikhan non è porto di mare — disse a questo punto Paul, interrompendo il sogno. Il suo psicoinsegnante, molti anni prima, gli aveva dato molte informazioni sulla Vecchia Terra. — O ascolti, o te ne vai! — ribatté Johnny Aceto, l’alter ego di Paul in quel momento. — Io dico che è un porto di mare! — Paul (Johnny Aceto) ritornò dunque alla nave e considerò il fatto. Aveva sempre avuto abitudini costose, e avrebbe senz’altro impiegato nel migliore dei modi quegli undici milioni di dollari. Aguzzò la punta a un vecchio arpione, e con l’aiuto del mozzo si fece schizzar fuori quel rene dalla schiena. Lo lavorarono un po’ al tornio per dargli una forma più regolare, e lo lucidarono a specchio con una pelle di daino. Alla fine, era il più bel rene del mondo.