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Poi si girò verso la stanza. Sulla porta, l’agente speciale Dave Holland chiacchierava con un agente in uniforme, in attesa, proprio come Thorne, del segnale per entrare e cominciare a scavare nel fango.

In vari punti della stanza, tre tecnici della scientifica si muovevano carponi, raccogliendo indizi in buste di plastica e attaccando cartellini, in cerca del capello, della fibra tessile in grado di incastrare l’assassino. Una condanna a vita nascosta in un granello di polvere. La verità nella spazzatura.

Phil Hendricks, il patologo, era appoggiato al muro, intento a borbottare qualcosa nel nuovo registratore di cui era tanto orgoglioso. Alzò gli occhi a fissare Thorne, con uno sguardo che poneva le solite domande: «Siamo di nuovo in pista?». «Quando le cose diventeranno un po’ meno complicate?» «Non sarebbe meglio gettare la spugna e passare il resto della vita seduti su una panchina?». Thorne, che non aveva risposte per quei quesiti inespressi, distolse lo sguardo. Nell’angolo di fronte, un quarto tecnico della scientifica, con una testa pelata che, unita alla tuta sterile, gli conferiva l’aspetto di un gigantesco neonato, spargeva polvere per rilevare le impronte sui rubinetti del lavandino in plastica marrone.

Si trattava di un buco merdoso con qualche optional, questo sì.

In tutto c’erano sette persone in quella stanza. Otto, contando il cadavere.

Lo sguardo di Thorne si posò, riluttante, sul corpo pallido dell’uomo. Era nudo sul materasso, sul quale le macchie di sangue si confondevano con altre di origine meno evidente. Era prono, con le ginocchia sotto il petto e il sedere all’aria. Le mani erano legate da una cintura di pelle marrone e protese in avanti. La testa, coperta da un cappuccio nero, era affondata nel materasso.

Thorne osservò Phil Hendricks avvicinarsi al letto, sollevare la testa del cadavere e sfilare il cappuccio. Vide le spalle dell’amico irrigidirsi per un istante. Poi la testa del morto ricadde sul materasso. Un tecnico della scientifica si avvicinò e infilò il cappuccio in una busta di plastica.

Thorne si spostò in modo da poter vedere bene la faccia del morto.

Occhi chiusi, naso piccolo e all’insù. Sulle guance, minuscole macchie di sangue. La bocca era una maschera di sangue coagulato con le labbra a brandelli irretite da fili di saliva secca. I denti irregolari avevano profondamente inciso il labbro inferiore, nel momento in cui il cappio si era stretto intorno al collo.

Quell’uomo poteva avere sì e no quarant’anni, ma era solo una supposizione. Da qualche parte, sopra le loro teste, un boiler smise di fare rumore. Soffocando uno sbadiglio, Thorne alzò gli occhi verso le ragnatele che decoravano il soffitto. Si chiese se gli altri ospiti dell’hotel si sarebbero preoccupati ancora dell’acqua calda quando fossero venuti a sapere ciò che era accaduto nella stanza 6. Fece un passo verso il letto. Hendricks parlò senza voltarsi.

«A parte il fatto che è morto, non so un cazzo, perciò non chiedermi nulla, chiaro?»

«Oh, non c’è male, Phil, grazie per esserti informato sulla mia salute. E tu come stai?»

«Non vorrai farmi credere di essere venuto qui solo per uno scambio di convenevoli?»

«Cosa c’è di male? Sto solo cercando di rendere le cose un po’ più facili.»

Hendricks evitò di controbattere.

Thorne si chinò per grattarsi la caviglia attraverso la tuta sterile. «Phil…»

«Te l’ho detto, non so niente. Guardati intorno da solo. Il modo in cui è morto sembra ovvio, ma non lo è poi tanto. Ci sono… altre cose.»

«Va bene, vediamo.»

Hendricks indietreggiò appena e fece un cenno a un tecnico della scientifica, il quale si avvicinò con una piccola scatola in mano. Si inginocchiò davanti al letto e l’aprì, rivelando una serie di strumenti lucenti. Prese un bisturi e si chinò sul collo della vittima.

Thorne lo vide premere un dito guantato tra il cappio e il collo. La corda sembrava una di quelle che si usano per stendere il bucato, facilmente acquistabili in qualunque ferramenta. Plastica blu liscia. Era penetrata in profondità nel collo dell’uomo. Il tecnico della scientifica la tagliò con il bisturi, facendo attenzione a preservare il nodo. Era la procedura, naturalmente. Logica e terribile.

Forse avrebbero avuto bisogno di mettere quel nodo a confronto con altri.

Thorne gettò un’occhiata a Dave Holland, il quale inarcò le sopracciglia e sollevò le palme delle mani. «Cosa succede? Quanto ci vorrà?» Thorne si strinse nelle spalle. Era lì da oltre un’ora. Lui e Holland avevano controllato la stanza, prendendo appunti, raccogliendo indizi, facendosi un’idea dell’accaduto. Adesso era il turno dei tecnici e Thorne scalpitava. Se avesse potuto ammettere con franchezza che tanta impazienza era dovuta al desiderio di dare inizio al processo che avrebbe assicurato alla giustizia l’assassino di quell’uomo, si sarebbe sentito meglio. Ma, in realtà, voleva solo fare il più rapidamente possibile ciò che andava fatto e uscire da quella stanza.

Voleva togliersi quella tuta di plastica, salire in macchina e allontanarsi in fretta.

Ma, per onestà verso se stesso, doveva confessare che solo una parte di lui voleva andarsene. L’altra parte, quella che conosceva e sapeva valutare le differenze tra una scena del delitto e l’altra, era in piena attività. Thorne aveva visto vittime di amanti gelosi e di mariti andati fuori di testa. Aveva visto corpi di rivali in affari e di informatori della polizia. Ed era in grado di riconoscere quando ciò che si trovava davanti era fuori dall’ordinario.

Quella era l’opera di un assassino spinto da un movente particolare, spettacolare.

La stanza puzzava di odio e di rabbia, ma anche di orgoglio.

Hendricks, come leggendogli nel pensiero, disse, con un mezzo sorriso: «Ancora cinque minuti, va bene? Non resta molto da fare».

Thorne annuì. L’uomo sul letto, la sua posizione… Era quella di chi sta rendendo omaggio a qualcuno. Se non fosse stato per la cintura, per il livido infossato intorno al collo, per il sangue rappreso sulla parte posteriore delle cosce pallide, si sarebbe potuto dire che era in preghiera. E forse, alla fine, aveva pregato davvero.

In quella stanza faceva caldo. Thorne si sfregò un occhio e sentì una goccia di sudore scendergli lungo il petto, deviando poi all’altezza del ventre prominente.

In strada, un automobilista esasperato suonava il clacson a tutto spiano.

Thorne non si era reso conto di aver chiuso gli occhi e, quando li aprì di scatto sentendo squillare un telefono, per pochi istanti meravigliosi pensò di essersi appena svegliato da un brutto sogno.

Si voltò, un po’ disorientato, e vide Holland in piedi davanti al comodino. Il telefono bianco era un modello degli anni Settanta, con la tastiera crepata e la cornetta sbilenca sulla forcella. Thorne adesso era completamente sveglio. Quella chiamata era per loro? Era qualcuno della polizia? Oppure un addetto della reception, che non sapeva dell’accaduto e aveva passato una telefonata dall’esterno? Se fosse stato così, si sarebbe trattato di un vero colpo di fortuna.

Thorne si avvicinò al telefono. Tutti gli altri rimasero immobili a fissarlo.

I vestiti del morto (ammesso che fossero i suoi) erano sparsi sul pavimento. Pantaloni e mutande accanto alla sedia. La camicia appallottolata. Una scarpa sotto il letto, vicino alla testiera. La giacca in poliestere, appesa allo schienale di una sedia accanto al letto, non conteneva effetti personali. Niente portafoglio, biglietti dell’autobus, vecchie fotografie. Nulla che potesse aiutare a identificare la vittima.

Thorne non sapeva se dal telefono fossero già state rilevate le impronte, ma non c’era tempo per controllare. Così afferrò una busta di plastica che il tizio calvo della scientifica gli porgeva e ci infilò dentro la mano. Fece un cenno per chiedere silenzio, ma non ce n’era bisogno. Trasse un profondo respiro e sollevò la cornetta.