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Ma più che i finestrini della sala erano quelli sulle cucine a interessare il gatto: guardando nella sala si vedeva di lontano e come trasfigurato ciò che nelle cucine appariva — ben concreto e a portata di zampa — come un uccello spennato o un pesce fresco. Ed era appunto dalla parte delle cucine che il soriano voleva guidare Marcovaldo, o per un gesto d'amicizia disinteressata o perché piuttosto sperava nell'aiuto dell'uomo per una delle sue incursioni.

Marcovaldo invece non voleva staccarsi dal suo belvedere sul salone: dapprincipio come affascinato dalla gala dell'ambiente, e poi perché là qualcosa aveva calamitato la sua attenzione. Tanto che, vincendo il timore d'esser visto, faceva continuamente capolino a testa in giù.

Nel mezzo della sala, proprio sotto quel finestrino, c'era una piccola peschiera di vetro, una specie d'acquario, in cui nuotavano delle grosse trote. S'avvicinò un cliente di riguardo, con un cranio calvo e lucido, nerovestito e con la barba nera. Lo seguiva un vecchio cameriere in frac che teneva in mano una reticella come se andasse per farfalle.

Il signore in nero guardò le trote con aria grave e attenta; poi alzò una mano e con un lento gesto solenne ne indicò una. Il cameriere immerse la reticella nella peschiera, inseguì la trota designata, la catturò, si diresse alle cucine, reggendo davanti a sé come una lancia la rete in cui si dibatteva il pesce. Il signore in nero, grave come un magistrato che ha comminato una sentenza capitale, andò a sedersi, in attesa del ritorno della trota, fritta «alla! mugnaia».

«Se trovo il modo di gettare una lenza di quassù] e far abboccare una di queste trote, — pensò Marcovaldo, — non potrò essere accusato di furto, ma tut — j t'al più di pesca non autorizzata». E, senza dar retta ai miagolii che lo chiamavano dalla parte della cucina, andò a cercare i suoi arnesi di pesca.

Nessuno nel salone affollato del Biarritz vide il sottile lungo filo, armato d'amo e d'esca, calare giù giù fin dentro alla peschiera. L'esca la videro i pesci, e si gettarono. Nella mischia una trota riuscì a mordere il verme: e subito prese a salire, a salire, uscì dall'acqua, guizzando argentea, volò in alto, sopra le tavole imbandite e i carrelli degli antipasti, sopra la fiamma azzurra dei fornelli per le «crépes Suzette», e sparì nel cielo del finestrino.

Marcovaldo aveva tirato la canna con lo scatto e l'energia del provetto pescatore, tanto da far finire il pesce alle sue spalle. La trota aveva appena toccato terra quando il gatto si slanciò. Quel poco di vita che le restava la perse tra i denti del soriano. Marcovaldo, che in quel momento aveva abbandonato la lenza per correre ad acchiappare il pesce, se lo vide portar via di sotto il naso, con l'amo e tutto. Fu lesto a mettere un piede sulla canna, ma lo strappo era stato così forte che all'uomo restò solo la canna, mentre il soriano scappava col pesce che si tirava dietro il filo della lenza. Traditore d'un micio! Era sparito.

Ma stavolta non gli scappava: c'era quel lungo filo che lo seguiva e indicava la via che aveva preso. Pur avendo perso di vista il gatto, Marcovaldo inseguiva l'estremità del filo: ecco che scorreva su per un muro, scavalcava un poggiolo, serpeggiava per un portone, veniva inghiottito in uno scantinato… Marcovaldo, inoltrandosi in luoghi sempre più gatteschi, arrampicandosi su tettoie, scavalcando ringhiere, riusciva sempre a cogliere con lo sguardo — magari un secondo prima che sparisse — quella mobile traccia che gli indicava il cammino preso dal ladro.

Ora il filo si snoda per il marciapiede d'una via, in mezzo al traffico, e Marcovaldo correndogli dietro è ormai quasi arrivato ad afferrarlo. Si butta a pancia a terra; ecco, l'acchiappa! Era riuscito ad afferrare il capo del filo prima che sgusciasse tra le sbarre di un cancello.

Dietro un cancello mezz'arrugginito e due pezzi di muro rincalzati da piante rampicanti, c'era un piccolo giardino incolto, con in fondo una palazzina dall'aria abbandonata. Un tappeto di foglie secche copriva il viale, e foglie secche giacevano dappertutto sotto i rami dei due platani, formando addirittura delle piccole montagne sulle aiole.

Uno strato di foglie galleggiava nell'acqua verde d'una vasca. Intorno s'elevavano edifici enormi, grattacieli con migliaia di finestre, come tanti occhi puntati con disapprovazione su quel quadratino di due alberi, poche tegole e tante foglie gialle, sopravvissuto nel bel mezzo d'un quartiere di gran traffico.

E in questo giardino, appollaiati sui capitelli e sulle balaustre, distesi sulle foglie secche delle aiole, arrampicati al tronco degli alberi o alle grondaie, fermi sulle quattro zampe e con la coda a punto interrogativo, seduti a lavarsi il muso, erano gatti tigrati, gatti neri, gatti bianchi, gatti pezzati, soriani, angora, persiani, gatti di famiglia e gatti randagi, gatti profumati e gatti tignosi. Marcovaldo capì d'essere finalmente giunto nel cuore del regno dei gatti, nella loro isola segreta. E, dall'emozione, quasi s'era dimenticato del suo pesce.

Era rimasto, il pesce, appeso per la lenza al ramo d'un albero, fuori portata dei salti dei gatti; doveva essere caduto dalla bocca del suo rapitore in qualche maldestra mossa forse per difenderlo dagli altri, forse per sfoggiarlo come una preda straordinaria; il filo s'era impigliato e Marcovaldo per quanti strattoni desse non riusciva a liberarlo. Una lotta furiosa s'era intanto accesa tra i gatti, per raggiungere questo pesce irraggiungibile, ossia per il diritto di tentare di raggiungerlo. Ognuno voleva impedire agli altri di saltare: si lanciavano l'uno contro l'altro, si azzuffavano per aria, roteavano avvinghiati, con sibili, lamenti, sbuffi, atroci gnaulii, e finalmente una battaglia generale si scatenò in un turbine di foglie secche crepitanti.

Marcovaldo, dopo molti strappi inutili, ora sentiva che la lenza s'era liberata, ma si guardava bene dal tirare: la trota sarebbe cascata proprio in mezzo a quella mischia di felini inferociti.

Fu in quel momento che dall'alto dei muri del giardino prese a cadere una strana pioggia: resche, teste di pesce, code, e anche pezzi di polmone e coratella. Subito i gatti si distrassero dalla trota appesa e si gettarono sui nuovi bocconi. Per Marcovaldo, era il momento buono di tirare il filo e recuperare il suo pesce. Ma, prima che avesse avuto la prontezza di muoversi, da una persiana del villino uscirono due mani gialle e secche: una brandiva una forbice, l'altra una padella. La mano con la forbice s'alza sopra la trota, la mano con la padella si sporge sotto. La forbice taglia il filo, la trota cade nella padella, mani forbice padella si ritirano, la persiana si chiude: tutto nello spazio d'un secondo. Marcovaldo non capisce più niente.

— Anche lei è amico dei gatti? — Una voce alle sue spalle lo fece voltare. Era circondato di donnette, certune vecchie vecchie, con in testa cappelli fuori moda, altre più giovani, con l'aria di zitelle, e tutte portavano in mano o nella borsa cartocci con avanzi di carne o di pesce, e certune anche un tegamino con del latte. — Mi aiuta a buttare questo pacchetto di là del cancello, per quelle povere bestiole?

Tutte le amiche dei gatti convenivano a quell'ora attorno al giardino delle foglie secche per portare da mangiare ai loro protetti.

— Ma, ditemi, perché stanno tutti qua, questi gatti? — s'informò Marcovaldo.

— E dove vuole che vadano? Solo questo giardino, c'è rimasto! Vengono qui i gatti anche dagli altri quartieri, per un raggio di chilometri e chilometri..