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— E anche gli uccelli, — interloquì un'altra, — su questi pochi alberi, si son ridotti a viverci a centinaia e centinaia…

— E le rane, stanno tutte in quella vasca, e la notte gracidano, gracidano… Si sentono anche dal settimo piano delle case intorno…

— Ma di chi è, questa villetta? — chiese Marcovaldo. Adesso, davanti al cancello non c'erano soltanto quelle donnette ma anche altra gente: il benzinaio di fronte, i garzoni di un'officina, il postino, il verduriere, qualche passante. E tutti, donne e uomini, non si fecero pregare a dargli risposta: ognuno voleva dire la sua, come sempre quando si tratta d'un argomento misterioso e controverso.

– È d'una marchesa, che ci abita, ma non si vede mai…

— Le hanno offerto milioni e milioni, le imprese edilizie, per questo pezzettino di terreno, ma non vuole vendere…

— Cosa volete che se ne faccia, dei milioni, una vecchietta sola al mondo? Preferisce tenersi la sua casa, anche se va a pezzi, pur di non essere obbligata a traslocare…

— È l'unica superficie non costruita nel centro della città… Aumenta di valore ogni anno… Le hanno fatto delle offerte…

— Offerte soltanto? Anche intimidazioni, minacce, persecuzioni… Sapeste, gli impresarii

— E lei resiste, resiste, da anni…

— È una santa… Senza di lei dove andrebbero quelle povere bestiole?

— Figuriamoci se le importa qualcosa delle bestiole, a quella vecchia spilorcia! L'avete mai vista dar loro qualcosa da mangiare?

— Ma cosa volete che dia ai gatti, se non ha niente per sé? È l'ultima discendente d'una famiglia decaduta!

— Li odia, i gatti! L'ho vista rincorrerli a ombrellate!

— Perché le calpestavano i fiori delle aiole!

— Ma di che fiori parlate? Questo giardino io l'ho sempre visto pieno d'erbacce!

Marcovaldo capì che sulla vecchia marchesa le opinioni erano profondamente divise: chi la vedeva come una creatura angelica, chi come un'avara e un'egoista.

— E anche con gli uccellini: mai che dia loro una briciola di pane!

— Da l'ospitalità: vi sembra poco?

— Tal quale come le zanzare, volete dire. Vengo — ^ no tutte di qua, da quella vasca. D'estate le zanzare ci mangiano vivi, tutto per colpa di quella marchesa!

— E i topi? È una miniera di topi, questa villa. Sotto le foglie secche hanno le loro tane, e di notte escono…

— Per quel che riguarda i topi, ci pensano i gatti…

— Oh, i vostri gatti! Se dobbiamo fidarci di loro…

— Perché? Cos'ha da dire contro i gatti?

Qui la discussione degenerò in una lite generale.

— Dovrebbe intervenire l'autorità: sequestrare la villa! — gridava uno.

— Con che diritto? — protestava un altro.

— In un quartiere moderno come il nostro, una topaia così… Dovrebb'essere proibito…

— Ma se io il mio appartamento l'ho scelto proprio perché ha la vista su questo poco di verde…

— Macché verde! Pensate al bel grattacielo che potrebbero farci!

Anche Marcovaldo avrebbe avuto da dire la sua, ma non trovava il momento adatto. Finalmente, tutto d'un fiato, esclamò: — La marchesa mi ha rubato una trota!

La notizia inaspettata diede nuovi argomenti ai nemici della vecchia, ma i difensori se ne servirono come d'una prova dell'indigenza in cui versava la sfortunata nobildonna. Gli uni e gli altri furono d'accordo sul fatto che Marcovaldo dovesse andare a bussare alla sua porta e a chiederle ragione.

Il cancello non si capiva se fosse chiuso a chiave o aperto: comunque, s'apriva spingendo, con un lamentoso cigolìo.

Marcovaldo si fece largo tra le foglie e i gatti, salì i gradini del portico, bussò forte all'uscio.

A una finestra (la stessa da cui s'era affacciata la padella) si alzò lo scuro della persiana e in quell'angolo si vide un occhio rotondo e turchino, una ciocca dal colore indefinibile dei capelli tinti, e una mano secca secca. Una voce che diceva: — Chi è? Chi bussa? — arrivò insieme a una nuvola d'odore d'olio fritto.

— Io, signora marchesa, sarei quello della trota, — spiegò Marcovaldo, — non per disturbarla, era solo per dirle che la trota, nel caso lei non lo sapesse, quel gatto l'aveva rubata a me, che sarei quello che l'aveva pescata, tant'è vero che la lenza…

— I gatti, sempre i gatti! — fece la marchesa, nascosta dietro la persiana, con una voce acuta e un po' nasale. — Tutte le mie maledizioni vengono dai gatti! Nessuno sa cosa vuoi dire! Prigioniera notte e giorno di quelle bestiacce! E con tutta l'immondizia che la gente butta da dietro i muri, per farmi dispetto!

— Mala mia trota…

— La sua trota! Cosa vuole che ne sappia della sua trota! — e la voce della marchesa diventava quasi un grido, come volesse coprire lo sfrigolìo d'olio in padella che usciva dalla finestra insieme all'odorino di pesce fritto. — Come posso capire qualcosa con tutto quel che mi piove in casa?

— Sì, ma la trota l'ha presa o non l'ha presa?

— Con tutti i danni che subisco per via dei gatti! Ah, vorrei proprio vedere! Io non rispondo di nulla! Dovessi dire io, quello che ho perso! Coi gatti che mi occupano da anni casa e giardino! La mia vita in balia di queste bestie! Valli a trovare, i proprietari, per farti rifondere i danni! Danni? Una vita distrutta: prigioniera qui, senza poter muovere un passo!

— Ma, scusi, chi la obbliga a restare?

Dallo spiraglio della persiana appariva ora un occhio tondo e turchino, ora una bocca con due denti sporgenti; per un momento si vide tutto il viso e a Marcovaldo sembrò confusamente un muso di gatto.

— Loro, mi tengono prigioniera, loro, i gatti! Oh, se me ne andrei! Quanto darei per un appartamentino tutto mio, in una casa moderna, pulita! Ma non posso uscire… Mi seguono, si mettono di traverso ai miei passi, mi fanno inciampare! — La voce divenne un sussurro, come confidasse un segreto. — Hanno paura che venda il terreno… Non mi lasciano… non permettono… Quando vengono gli impresari a propormi un contratto, dovrebbe vetirano derli, i gatti! Si mettono di mezzo, unghie, hanno fatto scappare anche un notaio! Una volta avevo il contratto qui, stavo per firmare, e sono piombati dalla finestra, hanno rovesciato il calamaio, strappato tutti i fogli…

Marcovaldo si ricordò tutt'a un tratto dell'ora, del magazzino, del caporeparto. S'allontanò in punta di piedi sulle foglie secche, mentre la voce continuava a uscire di tra le stecche della persiana avvolta in quella nube come d'olio in padella: — Mi hanno fatto anche un graffio… Ho ancora il segno… Qui abbandonata in balia di questi demonii…

Venne l'inverno. Una fioritura di fiocchi bianchi guarniva i rami e i capitelli e le code dei gatti. Sotto la neve le foglie secche si sfacevano in poltiglia. I gatti li si vedeva poco in giro, le amiche dei gatti meno ancora; i pacchetti di resche venivano consegnati solo al gatto che si presentava a domicilio. Nessuno, da un bel po', aveva più visto la marchesa. Dal comignolo del villino non usciva più fumo.

Un giorno di nevicata, nel giardino erano tornati tanti gatti come fosse primavera, e miagolavano come in una notte di luna. I vicini capirono che era successo qualcosa: andarono a bussare alla porta della marchesa. Non rispose: era morta.

A primavera, al posto del giardino un'impresa di costruzioni aveva impiantato un gran cantiere. Le scavatrici erano scese a gran profondità per far posto alle fondamenta, il cemento colava nelle armature di ferro, un'altissima gru porgeva sbarre agli operai che costruivano le incastellature. Ma come si faceva a lavorare? I gatti passeggiavano su tutte le impalcate, facevano cadere mattoni e secchi di calcina, s'azzuffavano in mezzo ai mucchi di sabbia. Quando s'andava per innalzare un'armatura si trovava un gatto appollaiato in cima che sbuffava inferecito. Mici più sornioni s'arrampicavano sulle spalle dei muratori con l'aria di voler far le fusa e non c'era verso di scacciarli. E gli uccelli continuavano a fare il nido in tutti i tralicci, il casotto della gru sembrava una voliera… E non si poteva prendere un secchio d'acqua senza trovarlo pieno di ranocchi che gracidavano e saltavano…