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Due navi, pensò Anna, in orbita sincronizzata. Una aveva portato i diplomatici umani. L’altra aveva portato gli alieni dal pelo grigio. Nelle notti chiare erano visibili entrambe nel cielo sopra la stazione e i suoi colleghi… gli astronomi, dilettanti e professionisti… gliele avevano indicate. La nave hwarhath a est, sopra l’oceano. La nave terrestre sopra la zona diplomatica. Andavano tutt’e due avanti e indietro sopra la stazione, senza cambiare mai posizione.

L’osservazione di Gislason non aveva senso per Anna. Se la strumentazione hwarhath era così buona, avrebbe dovuto rilevare la barca, forse non sulla parte visibile dello spettro, ma altrove. L’imbarcazione, dopotutto, non era una macchina tanto sofisticata. Non aveva schermi di protezione. Il cielo sapeva… lei no… che razza di radiazioni emetteva, ma certamente qualcosa che i hwarhath erano in grado di individuare senza possibilità di scambiarla per qualcos’altro. Era l’unica barca esistente sul pianeta.

Guardò il suo compagno. Il viso lungo era illuminato dal chiarore del pannello della strumentazione: verdastro, come uscito da una storia di fantasmi. E non era una visione rassicurante. Decise di non fare altre domande e si girò a guardare l’oceano.

Passò del tempo. Anna aveva freddo ma rimase in coperta, riluttante a lasciare solo Gislason.

Superarono un ultimo gruppo di alieni: piccoli individui, che dovevano aver avuto paura di avvicinarsi ulteriormente alla baia. Galleggiavano sul lato est della barca: una grande macchia di luce che si sollevava e si abbassava con le onde, attraversata da colori, azzurri e verdazzurri, perlopiù. C’erano anche scintille di arancione e di giallo: collera, frustrazione, eccitamento, avvertimento. In un’occasione, per circa un minuto, l’intero branco divenne di una straordinaria tonalità di rosa. Di che cosa si trattava? Anna non riuscì a decifrare il messaggio. Era una variante della rassicurazione che gli individui adulti si mandavano l’un l’altro? Sono io. Non avere paura.

Fiotti di luce uscivano dall’agglomerato e altri agglomerati più piccoli vi si radunavano attorno. Questo Anna, nonostante il buio e la pioggia, riusciva a vederlo. Se soltanto avesse avuto un aereo e un cielo sgombro! Avrebbe tanto voluto poter guardare dall’alto.

— Che cosa succede? — domandò Gislason.

— Non lo so. Non abbiamo mai prestato molta attenzione agli individui troppo piccoli per accoppiarsi. Potremmo esserci sbagliati. Vorrei tanto sapere che cosa fa scattare quel genere di comportamento. Non penso che questi esemplari siano neppure a contatto visivo con altri alieni, perciò non stanno reagendo a una manifestazione luminosa. E vorrei tanto conoscere lo scopo di questo raduno. Non stanno scambiandosi materiale genetico. Sono troppo giovani. — Anna tacque, fissando quel dondolio di luci. — E vorrei tanto sapere se la loro azione è casuale o se sanno quello che fanno.

L’agglomerato di alieni si dissolse. La barca proseguì verso sud, sud-est per un’altra ora e nessun altro alieno fu avvistato. Dio, era così freddo là fuori! E faceva paura. Nel buio, erano a malapena visibili soltanto le creste bianche delle onde.

— Scusate — disse infine una voce calda. — Qui è il vostro Mark Ten Marine Mind computer che interviene una seconda volta. Se date un’occhiata allo schermo radar, rileverete un oggetto proprio davanti a voi; distanza stimata, mille metri. L’oggetto è solido e galleggia sulla superficie dell’acqua. Non si muove. Se non volete entrare in contatto con l’oggetto, prego cambiare rotta. Se volete entrare in contatto, prego rallentare.

Gislason colpì il bottone rosso.

— Avete indicato che desiderate gestire da soli questa situazione. D’ora in poi, rimarrò in silenzio.

— Stronzo — disse Gislason.

La barca rallentò.

Anna spiò nell’oscurità davanti a loro. Non riusciva a vedere niente. — Che cos’è?

— Un aereo — rispose Gislason. — Qui noi decolliamo.

— Noi cosa? Siamo in mezzo all’oceano.

— Il nemico può individuare questa barca, signora. Di questo si renderà conto. Non possiamo rimanere a bordo. Lascerò che sia Mark Ten Marine Mind a proseguire da solo. Dovrebbe farcela tranquillamente.

— Questa è l’unica barca nel raggio di anni luce ed è piena di attrezzature per la ricerca. Non possiamo abbandonarla.

— Non l’abbandoneremo, signora. Mark sembra ansioso di subentrarci. Lasceremo fare a lui.

— No — disse Anna.

— Non ha scelta, signora.

Anna vide delle luci davanti a loro che andavano su e giù sulla superficie dell’oceano. Ce n’erano tre, piccole e fioche e decisamente artificiali.

La barca rallentò ulteriormente. Anna rilevò la forma scura dell’aereo. Le luci ne segnavano il muso, la coda e un’ala.

— Non possiamo farlo — disse Anna. — Potrei perdere il lavoro.

— Mi creda, signora Perez, potrebbe trovarsi in guai peggiori se non collabora con il maggiore.

La barca virò per presentarsi di fianco, rollando più violentemente di prima quando Gislason manovrò per accostare all’aereo. Quando furono vicini, che quasi toccavano la fiancata scura del velivolo, una porta si aprì, disegnando un rettangolo di luce gialla. Anna sbatté le palpebre e vide una persona stagliata contro la luce. — Tenente? — La voce era maschile.

Gislason disse: — Dovremo ancorarla qui, per un po’. Aiuti Zhang e poi salga sull’aereo.

Lei aprì la bocca per obiettare, ma lo sguardo sul suo viso la indusse a tacere. Una persona tutt’altro che gradevole, pensò mentre aiutava l’uomo sulla porta a legare le funi d’ormeggio. Quand’ebbero finito, l’uomo allungò la mano e la issò sull’aereo, al di sopra della stretta striscia d’acqua. Ora lei poteva vederlo chiaramente: un alto asiatico orientale, in uniforme. Aveva il solito taglio moicano di capelli, tinti di turchese. Le sopracciglia erano dello stesso colore, più che mai esotiche. Anna si chiese che cosa ne avrebbe pensato Nicholas. Non che fosse verosimile che lui pensasse a qualcosa se non ai guai nei quali si trovava.

— Benvenuta a bordo della Shadow Warrior. - Il soldato indicò uno spazio lungo e stretto. A un’estremità c’era una fila di sedili, di fronte a una parete metallica che era vuota, fatta eccezione per una porta chiusa. I sedili sembravano appartenere a un aeroplano a razzo o a un maglev interurbano terrestre; sebbene i sedili del maglev non avrebbero avuto le cinture. Tranne che per i sedili, lo spazio era vuoto. Un aereo da carico, pensò Anna.

— Temo che non potremo offrirle amenità, e io devo consegnare un pacco al tenente Gislason. Se si siede, le porterò del caffè in un paio di minuti.

Anna si avvicinò ai sedili e prese posto, di fronte alla parete vuota, distante un metro sì e no. Tutta quella luce la spaventava anche di più che navigare nell’oceano aperto.

Un paio di minuti dopo, il soldato asiatico riapparve. Oltrepassò la porta nella parete di metallo e tornò quasi subito con un boccale. Era di ceramica e tutto bianco. — Dovrà accontentarsi di quello nero, temo. E per quanto cattivo sia, devo dire che il tè è anche peggio.

Anna prese il boccale e bevve. Il caffè era effettivamente spaventoso. — Ma non pulisce mai la caffettiera?

— Non è ai primi posti delle priorità. Se vuole scusarmi. — Il soldato se ne andò.

Anna sorseggiò il suo caffè… poco… fissando la parete di metallo.

Una ventina di minuti dopo, Gislason salì a bordo. Sedette accanto a lei e si allacciò la cintura. — Fatto. Mark adesso fa tutto da solo.

Il soldato asiatico chiuse il portello esterno, prese la tazza del caffè di Anna e proseguì verso la parte anteriore dell’aereo. Anna non aveva idea di cosa si trovasse al di là della porta interna. La macchinetta del caffè o la cabina dell’aereo.