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I motori partirono.

— È legata? — domandò Gislason. — Il decollo non sarà dolce.

E non lo fu, e Anna ricordò che non le era mai piaciuto molto volare. Si aggrappò ai braccioli del sedile. Accanto a lei, Gislason si portò le mani al viso.

Anna ebbe un momento di terrore. — Che cosa c’è? Ci sono problemi?

L’aereo fece ancora qualche rimbalzo, poi si stabilizzò nell’aria. Gislason sollevò la testa. I suoi occhi avevano cambiato colore. Erano azzurri, d’un colore così intenso che sembravano accesi dall’interno.

— Gesù Maria — disse Anna.

Lui afferrò la ciocca di capelli che gli scendeva sulla fronte, tirandola verso l’alto e all’indietro. — Merda! Fa male. — I capelli si staccarono. Sotto, c’era un cranio pallido, calvo all’infuori della solita striscia alla moicano, gialla come il burro.

Se la strofinò, raddrizzando i capelli gialli. Adesso sembrava proprio uno scandinavo e un soldato, niente affatto somigliante a Nicholas.

L’aereo stava virando; Anna poteva sentire la cabina che si inclinava.

— Dove siamo diretti?

— Abbiamo un posto che il nemico non conosce. — Lui lanciò la parrucca sul sedile accanto. — Sarà meglio che si appoggi bene. Ci vorrà un po’.

Lei si appoggiò allo schienale, cercando di rilassarsi. Non era facile. Non aveva idea di quale direzione stessero prendendo. Est sopra l’oceano? Ovest o sud, verso terra? Se andavano a sud, sarebbero passati su una parte del continente che… per quel che ne sapeva… non era stata esplorata. Esistevano fotografie aeree, naturalmente, e i suoi colleghi biologi avevano colto alcuni campioni di vita. Le foto mostravano basse montagne spoglie e pianure coperte di vegetazione gialla simile a muschio. Di tanto in tanto c’erano delle foreste di grossi cespugli e/o piccoli alberi. Un animale che assomigliava a un incrocio tra un granchio e un armadillo andava al pascolo sulle pianure gialle di muschio. Era lungo due metri dalla punta delle zampe anteriori all’estremità della coda ricoperta da una corazza: il più lungo animale terrestre presente sul continente. Nessuno scheletro interno e, secondo i suoi colleghi, con un quoziente d’intelligenza zero; ma aveva un interessante sistema respiratorio.

Dopo un po’ Gislason tirò fuori qualcosa da una tasca e la svolse come se si trattasse di un pezzo di carta: una, due, tre volte.

Una scacchiera, dimensione standard. La toccò sul bordo e, d’un tratto, la scacchiera si solidificò: un unico pezzo di metallo e silicone. I quadrati rossi cominciarono a mandare una morbida luce rosata. Quelli neri rimasero neri, come finestre nello spazio.

Impressionante, pensò Anna.

Lui toccò di nuovo la scacchiera. Ed ecco che si materializzarono i pezzi, sebbene pezzi non fosse la parola giusta. Erano ologrammi, fatti di luce, non di sostanza.

Due file di guerrieri cinesi. Dietro, c’erano elefanti e consiglieri, generali a cavallo e un paio di splendidi imperatori accanto alle loro esili ed eleganti mogli. Uno degli imperatori era vestito di rosso, l’altro di bianco e d’argento.

— Sa giocare? — domandò Gislason.

— Conosco le mosse.

— Non basta. — Gislason toccò la scacchiera. Uno dei guerrieri sfoderò una spada. La minuscola lama scintillò. La figurina la brandì sopra la testa e fece un passo avanti.

Come resistere? Anna osservò il gioco. I guerrieri brandivano spade e stendardi. Gli elefanti si muovevano pesantemente. I cavalli dei generali si impennavano. I consiglieri scivolavano come su rulli. Gli imperatori compivano passi maestosi e le pericolose regine venivano avanti con un curioso oscillare di passettini.

Molto impressionante, sebbene chiaramente un ologramma. I colori erano troppo pallidi. I rossi e i bianchi avevano una certa iridescenza perlacea, e le figure mancavano di solidità, sebbene fossero tridimensionali e magnificamente dettagliate. Di tanto in tanto, vibravano o svanivano per brevi momenti.

Una coppia di eserciti fantasmi, pensò Anna. Che lottavano per cosa?

— Costa molto? — domandò.

— La scacchiera? Sì. Ma nello spazio non c’è modo di spendere molto denaro. Mi piacciono gli scacchi e i giocattoli costosi.

Gislason andò avanti fino a quando l’aereo non cominciò a scendere. Poi spense la scacchiera. Le minuscole figure spettrali svanirono. Riavvolse la scacchiera e la mise via mentre l’aereo planava… sull’acqua, decise Anna. Rallentò, girò e finalmente si fermò. La porta davanti a loro, quella che conduceva alla macchinetta del caffè, si aprì. Il soldato con le sopracciglia azzurre riapparve.

— Dobbiamo muoverci alla svelta, tenente. La nuvola che ci fornisce la copertura comincia a rompersi.

Gislason annuì e si alzò. — Signora?

Anna seguì i due verso lo sportello esterno. Sopracciglia azzurre lo aprì e saltò nell’oscurità. Anna udì un tonfo nell’acqua.

— Profondità un metro — disse sopracciglia azzurre. — E fredda.

— Signora — fece Gislason.

Anna saltò e colpì prima l’acqua, poi il fondo. Sabbia cedette sotto i piedi e sarebbe caduta se il soldato non l’avesse sostenuta.

— Tutto bene, signora?

— Sì.

Guadarono fino alla spiaggia, Gislason in coda. Quando fu sul terreno asciutto, Anna si guardò indietro. Un altro soldato era fermo nel vano dello sportello aperto dell’aereo, una donna, questa volta. Chiuse lo sportello e la luce scomparve. Un momento dopo, un’altra luce apparve in mano al soldato dalle sopracciglia azzurre. La diresse davanti a loro, su una spiaggia rocciosa.

— Andiamo.

Di nuovo, come in un sogno, Anna seguì l’indicazione. Il raggio della torcia rischiarò dapprima un terreno sassoso, poi uno ricoperto di similmuschio. Si inerpicarono per un pendio. C’erano oggetti attorno a loro, alti come persone ma immobili e silenziosi. Cos’erano?, pensò Anna. Il soldato sollevò la torcia e ne indirizzò il raggio verso un albero. Una folta lanuggine ne copriva il tronco e i rami. Non c’erano foglie.

— Dove siamo? — domandò Anna. — Sulla parte meridionale del continente?

— Temo di non poterglielo dire — rispose Gislason.

Fosse stato giorno, Anna avrebbe potuto cercare i grandi animali con la corazza e le zampe. Ma quelli erano animali diurni e, come i loro predatori, amavano il calore del sole.

Il raggio della torcia mostrò una sporgenza rocciosa davanti a loro, bassa e di pietra scura, con un’apertura per la quale entrarono: una caverna bassa. Sul fondo, c’era una porta. Anna non l’avrebbe notata neppure di giorno tanto era ben occultata.

Il soldato spinse e la porta si spalancò. Oltre, c’era un corridoio di cemento con tubi per l’illuminazione lungo il soffitto. La luce che quei tubi emanavano era pallida e aveva una venatura d’azzurro.

— Benvenuta a Campo Libertà — disse il soldato.

14

Entrarono, prima Anna, poi Gislason, infine il soldato il quale chiuse la porta dietro di sé. Dall’altra parte, era di metallo e aveva una ruota. Il soldato la girò come se stesse chiudendo una delle antiche casseforti di banca.

Gislason disse: — Vada avanti lungo il corridoio.

I loro passi echeggiavano debolmente. Per il resto, Anna non udiva altro che il ronzio di un sistema di condizionamento. Dopo un centinaio di metri, arrivarono a un’altra porta. Il soldato l’aprì. Dall’altra parte, c’erano molta luce e della musica. Anna riconobbe la canzone. Era stato un motivo in voga quando era venuta la prima volta ai confini della Confederazione: Vivere ai confini della Confederazione. Non ricordava più il nome del gruppo. Erano apparsi e svaniti come una cometa. Ma quella canzone era stupenda: la descrizione migliore di ciò che aveva sentito che fosse vivere "Dove nessuno è stato prima di me/e tutte le regole sono nuove" e "il messaggio di casa diventa rumore".