Выбрать главу

Vestiario confortevole e molto versatile. Vestiario facile da lavare e che non richiedeva d’essere stirato.

Ma anche… e non ultimo… che abbagliasse i cupi occhi azzurri degli alieni, e, se non gli alieni (chissà poi che cosa avrebbe potuto abbagliarli), almeno i suoi colleghi della squadra diplomatica, o Nicholas Sanders, con quel suo piacevole sorriso e la non altrettanto piacevole storia. Anche se non poteva dirsi assolutamente sicura che sarebbe stato coinvolto in quel nuovo giro di negoziati.

Quando ebbe finito di fare i bagagli, si recò nella sala osservazione e rimase a guardare la scatola di zuppa che girava, ruotando sul suo lungo asse.

C’era uno dei suoi colleghi, un giovane diplomatico che si chiamava Etienne Corbeau.

— Non capisco — disse lui. — Si può dare qualsiasi forma a queste stazioni. Perché le fanno così oscene?

— Forse loro le vedono in maniera diversa. La bellezza è un fatto soggettivo.

Etienne scosse la testa. — Io credo nell’assoluto dell’estetica. La moralità è relativa, ma nell’arte c’è la verità.

— Stronzate.

— Devi sforzarti di imparare un nuovo vocabolario, cara Anna.

Perché? Lei partecipava a quella gita per una ragione soltanto. Il nemico aveva chiesto espressamente di lei. I hwarhath sapevano che non era una diplomatica. Non si aspettavano che parlasse come Etienne.

Il nemico fece partire il suo shuttle e la squadra dei diplomatici salì a bordo: umani dai grandi sorrisi che prendevano posto negli ampi sedili alieni. Lei era l’unica donna; i hwarhath erano stati categorici.

L’aria all’interno dello shuttle aveva uno strano aroma. I hwarhath, pensò Anna dopo qualche momento. Si era dimenticata del loro odore in quei due anni ma adesso le tornava chiaramente. Non era spiacevole, solo non umano.

L’equipaggio dello shuttle indossava pantaloncini corti e sandali. Erano educati; Anna ricordava quella loro qualità dal precedente incontro con i hwarhath sul pianeta degli pseudosifonofori; e si muovevano con quella loro grazia che era una caratteristica della specie. E sembravano più alieni di quanto non fossero mai sembrati. Forse era a causa della loro nuova tenuta che non nascondeva nulla di quanto fossero pelosi. O forse era a causa dei capezzoli. Ne avevano quattro, disposti a due a due, grandi e scuri e chiaramente visibili sul loro largo petto peloso.

Anna si domandò quanti bambini nascessero in una nascita media hwarhath. Aveva fatto ogni ricerca possibile ma si sapeva così poco di quegli alieni! E soprattutto delle loro donne.

— Questa gente mi ha sempre fatto venire i brividi — disse Etienne.

— Perché?

— Gli occhi. Le mani. Il pelo. E la loro violenza. Tu non eri nella zona diplomatica quando l’hanno colpita.

No. Anna in quel momento era prigioniera della Mi umana.

Avvertì un sussulto: lo shuttle che si separava dalla nave umana, la Envoy of Peace. Un momento dopo, la loro gravità cambiò e Anna si assicurò che le cinture fossero allacciate.

Il viaggio non fu niente di speciale. I motori ora andavano, ora si fermavano, ora riprendevano ad andare. La gravità continuava a cambiare. Non c’era nulla di speciale da guardare, tranne la cabina senza finestrini. Ma i hwarhath usavano soltanto colori industriali? E perché i loro colori industriali erano gli stessi colori industriali usati sulla Terra? Certo, lei non sapeva nulla sull’ottica degli alieni. Forse quelle vuote pareti erano invece coperte di disegni allegri che lei non vedeva. Forse, quando guardavano le varie sfumature di grigio, gli alieni vedevano… chi avrebbe potuto dirlo? …colori vividi come il fucsia.

Attorno a lei, i diplomatici parlavano nervosamente. Non dicevano nulla di importante. Gli alieni avrebbero potuto essere in ascolto. Di fronte, l’assistente dell’ambasciatore parlava di gladioli ed Etienne stava descrivendo la sua ultima visita al Museo d’Arte Moderna di New York.

Dopo un’ora ci fu un altro piccolo sussulto. Lo shuttle aveva attraccato. Si aprirono delle porte e quelli dello staff fluttuarono fuori aiutati dagli alieni, che non fluttuavano. Doveva esserci qualcosa nei loro sandali che li teneva fermi al pavimento.

Era come arrivare a una stazione umana, pensò Anna. Un ascensore condusse i diplomatici dall’asse alla periferia. Quando si fermò, nessuno fluttuava più. Uscirono con grande dignità e i hwarhath li guidarono per un corridoio e in una stanza: vasta e assai luminosa, con una moquette grigiastra. L’aria era fresca e odorava di macchinario e di alieni; una mezza dozzina di loro stavano aspettando, con indosso soltanto quei loro pantaloncini lunghi fino al ginocchio.

— Non capisco proprio questo loro vestiario — disse Etienne.

Anna preferiva quelle uniformi aderenti che aveva già visto addosso ai hwarhath. Adesso però quelli sembravano più a loro agio, sebbene avessero meno l’aria di consumati guerrieri spaziali.

Ci furono i saluti ufficiali, pronunciati da un grosso alieno con un pesante accento. Non il primo difensore. Dov’era? L’ambasciatore umano restituì i saluti. Anna, che era un po’ indietro, ebbe qualche difficoltà a sentire, non che fosse particolarmente interessata.

Osservò i hwarhath e notò che uno di loro le sembrava familiare: basso, scuro, ordinato. Lui la guardò, incontrando i suoi occhi per un brevissimo istante. E sorrise, e anche il sorriso le era familiare: breve, ammiccante, della durata dello sguardo. Hai Atala Vaihar.

Quando i convenevoli ebbero termine, lui le si avvicinò. — Signora Perez.

— Osservatore Hai Atala.

— Si ricorda di me. Ne sono compiaciuto. Devo però precisarle che sono stato promosso. Adesso sono un addetto.

— Congratulazioni.

Lui fece un altro dei suoi sorrisi. — Come saprà, è stato convenuto che abbia un alloggio adeguato lontano da quelli degli uomini. L’accompagno.

Anna parlò con i suoi colleghi. Etienne parve preoccupato. L’assistente dell’ambasciatore disse: — La cosa non è che mi piaccia molto, Anna. — Il capo delle sicurezza le disse di stare attenta. Hai Atala aspettava in rispettoso silenzio.

Un paio di minuti dopo, stavano percorrendo un corridoio simile a quelli della base hwarhath: largo, spoglio, grigio e pieno di alieni che si muovevano velocemente e con la loro consueta aria di sicurezza.

— Ho letto Moby Dick come mi ha consigliato — disse l’addetto. — Davvero un buon libro e quasi interamente decente. Ho… come si dice? …insistito con Sanders Nicholas perché lo leggesse. Voglio discuterne con un umano. Forse, fintantoché lei è qui…

Svoltarono in un altro corridoio. Anna guardò davanti a sé. Una figura alta e sottile era ferma e rivolta verso di loro, le braccia incrociate, una spalla contro la parete grigia del corridoio. Incrociava anche i piedi e tutto il suo peso poggiava su una gamba soltanto. Assolutamente tipico. Il ricordo che Anna aveva di Nicholas era di lui sempre in una posizione rilassata, tranne alla fine.

Lui si raddrizzò e si scostò dalla parete, dispiegando le braccia e allontanandole dal corpo. Doveva trattarsi di un gesto formale: braccia distese, mani piatte, i palmi in avanti. Le dita erano strette, i pollici verso l’alto. Che cosa significava? "Non ho niente in mano e su per le maniche?"

Hai Atala si fermò e fece lo stesso gesto.

— Salve, Anna — disse Nicholas, e sorrise. Sembrava lo stesso di due anni prima. Un po’ più vecchio, forse. E più grigio di capelli.