Quel giorno, le sue riflessioni sembravano meno stanche e meno piene di rabbia, forse perfino felici. Sorrise a se stessa. Ricordati, Anna, le diceva sempre sua madre, un sorriso rende tutti più belli, e se sorridi sarai più felice.
La colazione era su uno dei tavoli della stanza principale: una tazza di caffè, coltello e forchetta, un piatto con una fetta di pane (tostato) e tre pezzi di bacon, croccante alla perfezione. L’ultima cosa contenuta nel piatto era quadrata, gelatinosa e d’un verde pallido.
Nicholas era in piedi, appoggiato al muro, e aveva in mano una tazza di caffè.
— Cosa diavolo è? — Anna infilò la forchetta nella cosa verde.
— In gran parte, proteine. Molto nutriente. Il sapore non la disgusterà. Non sa di niente.
Lei ne assaggiò un boccone. Nicholas aveva ragione quanto al sapore.
— Se desidera un po’ di carboidrati, ho qualcosa di giallo e… — Fece una pausa. — …consistente. Credo che sarebbe la descrizione giusta. Non sono mai riuscito a scoprirne il gusto. Certi giorni, penso che potrebbe essere cartone, ma non mangio cartone da anni.
— Questo è cibo umano — fece lei.
Nicholas sorrise. — Il bacon è vero e lo sono anche il caffè e il pane; ma pensavo che forse le sarebbe interessato ciò che mangiano la maggior parte degli umani, che sono… qual è il simpatico termine del generale? …nostri ospiti.
Anna mangiò. Lui rimase a guardarla, sorseggiando il suo caffè.
— Sparecchierò più tardi — disse, quando lei ebbe finito. — Dovremmo andare.
Passarono per gli alloggi delle donne, senza vedere nessuno, e superarono le grandi porte doppie.
Un hwarhath era in attesa nel corridoio: grosso, dall’aspetto desolato e grigio, e indossava gli abituali calzoncini. Si fece avanti. C’era qualcosa che non andava nel suo modo di muoversi. Era goffo, e il Popolo non lo era mai.
Allungò la mano sinistra e la guardò. — È giusto? Sto cercando di imparare a stringere la mano.
— L’altra mano — lo corresse Anna.
Lui obbedì e si strinsero la mano.
— Come sono andato? — domandò il hwar.
— Ci ha messo troppa forza. Proviamo di nuovo.
Lo fecero, mentre Nicholas stava a guardare. La sua espressione era attenta e divertita. — Dobbiamo andare, Anna.
Si girarono e proseguirono insieme. Non c’erano dubbi sul modo in cui l’alieno si muoveva; era il primo hwarhath scoordinato che lei avesse mai incontrato.
— Mats si è dimenticato di presentarsi — disse Nicholas. — È Eh Matsehar. Un progrediente, il che significa che mi supera di rango, ed è temporaneamente assegnato allo staff del generale. È soprattutto così che può studiare gli umani. Lavora per gran parte del tempo negli Art Corps. È il miglior commediografo della presente generazione.
— Il miglior commediografo maschio — precisò Eh Matsehar. — Amit Asharil è bravissima, ed è probabile che sia brava quanto me, anche se in realtà non è possibile paragonare il lavoro degli uomini con quello delle donne.
— Mele e arance — disse Nicholas — geniale.
— Conosco quella frase — fece l’alieno. — Sono due tipi di frutti provenienti dal vostro pianeta originario e, per un qualche motivo che non mi è chiaro, non possono essere paragonati.
— Uh-huh — commentò Nicholas.
— E lei… — Il hwarhath reclinò la testa, guardandola obliquamente. — …è Perez Anna, l’ultima delle vittime di Nicky.
— Cosa?
— Di questo possiamo parlare un’altra volta — disse Nicholas.
— Perché non ora? — domandò Eh Matsehar.
— Non so chi sia in ascolto.
— Qui? — L’alieno si guardò attorno. — Nessuno, suppongo. Cosa ascolterebbero? Pettegolezzi di corridoio.
— Forse — disse Nicholas.
Erano passati per una serie di corridoi, tutti quasi uguali: pareti nude e moquette fittamente intrecciata, tutto (come al solito) grigio. L’aria era fresca, quasi fredda. Sapeva di metallo e di alieni. Incontrarono diversi hwarhath ma non così numerosi come il giorno prima. La delegazione umana era arrivata al cambio di turno? I hwarhath organizzavano il loro lavoro in turni?
Raggiunsero un corridoio presidiato da due soldati con i fucili.
— Questa è la stazione dei Colloqui-con-i-Nemici — annunciò Nicholas. — È esattamente ciò che dice il nome; e questa è la sezione Colloqui-con-i-Nemici. D’ora in poi, Matsehar l’accompagnerà. Io devo occuparmi di altre faccende.
Anna proseguì con l’alieno. Lui la condusse in una stanza occupata dai membri del gruppo umano addetto ai negoziati e ve la lasciò. Il capo della sicurezza… un uomo molto scuro e magro, che portava vestiti civili e un taglio di capelli da civile… disse: — È andato tutto bene? — Aveva un accento cadenzato dei Caraibi. Il capitano McIntosh.
— Bene. Ho conosciuto qualche donna.
— Oh, sì? — fece l’assistente dell’ambasciatore. — Sono più facili da trattare degli uomini?
— Non credo — rispose Anna.
L’assistente aggrottò la fronte. — Non sono sicuro di volerlo sentire, Anna. Lei assisterà alla riunione da qui. Non siamo riusciti a smuoverli in proposito. Non la vogliono nella sala vera e propria della riunione, anche se ci hanno chiesto di portarla.
Per lei andava bene.
Il resto del gruppo se ne andò. La porta si chiuse alle loro spalle e Anna si guardò attorno: un’altra stanza grigia con la moquette. C’era una sedia, piazzata di fronte a una parete vuota. Come al solito, la sedia era più larga e bassa e superimbottita. Si sedette e la parete di fronte a lei sparì. Stava guardando un’altra stanza, più ampia di quella in cui si trovava lei e con due file di sedie, identiche alla sua… per quel che avrebbe potuto dire. Erano disposte al centro della stanza, una di fronte all’altra. A parte le sedie, la nuova stanza era vuota. Le pareti erano del solito colore, vuote e senza finestre.
Strano, pensò, mentre si accomodava. Il Popolo sembrava passare da un genere veramente lineare di design funzionale a un altro che lei aveva visto negli alloggi delle donne: ricco, decorato, splendidamente fatto. Era principalmente una questione di maschi e femmine? Gli uomini erano condannati al grigio della corazzata mentre le donne vivevano tra tappeti, arazzi e legno lucente come madreperla?
Della gente cominciò a entrare nella grande stanza, l’ologramma: prima umani, che entravano da una porta che lei non poteva vedere e si disponevano lungo una fila di sedie. Quand’ebbero preso tutti posizione, rimasero in piedi ad aspettare. Si era discusso e ci si era messi d’accordo su tutto: come la gente entrava e dove si sedeva.
I hwarhath arrivarono da un’altra parte. Si erano messi le uniformi da guerrieri spaziali. Gli stivali alti, neri e lucidi avevano un aspetto militare potente e arrogante. Molto più impressionanti dei sandali.
Il primo uomo che apparve era più basso degli altri che lo seguivano. Raggiunse l’estremità della seconda fila di sedie e la percorse fino a quella al centro, poi si fermò e si girò verso gli umani: un tipo robusto, dal petto ampio. Stava molto eretto, come tutti; Anna non aveva mai visto un hwarhath scomposto. E aveva la solita facilità di movimento e di andatura degli alieni, ma con qualcosa in più. Cosa?, si chiese. La sicurezza? La decisione? Qual era la parola esatta? La qualità di essere deciso. Gli altri hwarhath si disposero ai suoi lati. Anna riconobbe Hai Atala Vaihar, immediatamente alla sinistra dell’uomo basso, e leggermente più arretrato. Tutti i hwarhath si tenevano vicinissimi alla fila di sedie, accertandosi che l’uomo robusto fosse in posizione avanzata, da solo.