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E io timidamente: «Mi scusi, non ho capito. Le consiglierei di andare a sciacquare i panni in Arno». Quello inchioda la macchina e scende. È un gigante, sradica la portiera: «Scenni, pezzo demmerda, voi fa’ crede’ a tutto er monno che me so’ cagato sotto!?».

Ho raggiunto il ministero degli Esteri a piedi. Al quinto piano un funzionario quasi cieco mi dice: «Mi deve scusare per questa menomazione dovuta a cause ignote. Ora vado a cercarle gli indirizzi». Si allontana e immediatamente compare un usciere che, con voce da serpente: «Io sono un uomo buono, ma sono costretto a dirle le vere cause della menomazione: è diventato cieco perché sua moglie ha avuto una lunga relazione con un asino di Mogadiscio malato di sifilide». E scompare.

Rientra il funzionario, ma questa volta con occhiali neri, cane lupo e bastone bianco: «Mi dispiace, ma la Dante Alighieri ha cessato da un’ora esatta la sua attività in Italia, perché il presidente Leale Onesti è scappato in Turchia con la cassa. Fortunatamente restano operativi ancora due centri: uno a Adelaide in Australia, e l’ altro, più vicino ma con una gran brutta fama, a Madrid. Ecco gli indirizzi e buona fortuna!».

«Buona fortuna a lei!» ho detto, ma prima di entrare in ascensore ho sentito un clangore inquietante di vetri. Il cane, che era alla sua prima esperienza, purtroppo aveva “suicidato” il funzionario dal quinto piano e si era recato velocemente all’ Ufficio collocamento, per trovare un lavoro come cane antidroga, di cui era ghiotto.

Per raggiungere la Spagna ho deciso di non rischiare più i treni italiani o gli aerei della compagnia di bandiera, ma d’imbarcarmi sul traghetto Genova-Barcellona.

Ho raggiunto il capoluogo ligure con l’ autostop, e dopo tre ore d’attesa sotto una pioggerellina infernale a Settebagni alle porte di Roma mi ha dato un passaggio un tir turco. L’equipaggio era formato da tre pastori analfabeti dell’ Anatolia centrale: erano molto anziani e avevano delle facce di cuoio scuro. Uno ha detto: «Io Tarik, quello è Tarok, lui è Barak. E ora tu togli bantalone e mutanda e metti giù tipo pecora, perché noi molto tempo che non fare niente, neppure con capra o grandi oche bianche. E adesso tu fa pecora e si vuoi puoi anche fare beee, se prova gusto».

Sono diventato prima rosso bandiera, poi bianco neve. Mi tremavano le mani e al posto della lingua avevo una spugna greca gonfia di orina turca.

Io: «Cerchiamo di chiarire subito che non ho mai fatto la pecora, né intendo cominciare una nuova carriera». Poi li ho guardati negli occhi fosforescenti: «Che razza di intenzioni avete? Farabutti. Ma voi lo capite l’ italiano, almeno?».

Tarik: «Nostri nonni intuivano qualche parola, ma ora italiano è lingua fossile. Mettiti a pecora e, se vuoi, ulula!».

Ho ululato durante tutto il tragitto.

A Genova sono sceso senza ringraziare. Zoppicavo impercettibilmente.

Il traghetto Tsunami era strapieno, e rivolgendomi al nostromo ho domandato: «Com’è il mare fuori?».

Quello, con un ghigno satanico: «Gh’è o Libeccio ch’o piggia da-o mascun, vuscià fra mez’oa aviei bezeugno den turtaié».

«Scusi, non ho capito.» Volevo consigliare lo sciacquìo in Arno ma… Un minuto: la nave ha messo il muso fuori dalla diga foranea e si è sentito un botto come se avesse urtato contro un sommergibile tedesco della Prima guerra mondiale. L’altoparlante, in inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese, arabo e cinese: “Ci scusiamo per il mare, che non è completamente tranquillo, e invitiamo i signori passeggeri a lasciare il ponte e mettersi al riparo nelle loro cabine, legati ai letti, dopo aver indossato le cinture di salvataggio e, se li avete, degli elmi tedeschi!”.

Sono scomparsi quasi tutti; sul ponte gli unici fermi e sorridenti i passeggeri italiani. Uno di questi, che rideva più degli altri, ha domandato: «Ma che cazzo ha detto l’ altoparlante? È già pronto da mangiare?». E il nostromo: «Ninte, l’è solo che l’ annunsi in lengua italiana no li capisce ciù nisciun. O gh’à dito solo de mettìse legati inte gabinne».

E io, timidamente: «Ma non avete mai pensato a sciacquare i panni…». Non ho finito, perché è cominciato l’ inferno.

Prima ha iniziato a urlare un avvocato omosessuale di Firenze: «Dio bonino, sce l’ abbiamo nel culo!». Poi due travestiti di Udine: «Mior di cussi, no jere ce che tu volevis?».

A questo punto ha cominciato a urlare in mezzo al salone il comandante Colombo dì Genova, che era in alta uniforme: «Belìn! Cosa o dixe Fanti… l’ ante… l’ antuparla… Belìn. me son incartòu…» e si è vomitato nel cavo delle mani, nel berretto e poi sul pavimento, dicendo: «Belìn, che ma». Allora hanno vomitato tutti, compreso il nostromo. Si vomitavano addosso senza scusarsi, uno spettacolo memorabile.

Mi sono avvicinato al comandante che aveva la testa infilata in un’ombrelliera di rame. Gli tocco delicatamente la spallina destra: «Mi scusi dottore, perché non mandate qualcuno a sciacquare i panni…». Riemerge la testa di Colombo. Era violaceo, vomitava dal naso e anche dalle orecchie: «Ma vanni a da via o cù, abbelinòu!».

Mi sono rifugiato nelle cucine, dove lo chef, Italo Venesian, vomitava a spron battuto in una pentola. Vedendomi entrare ha alzato gli occhi a fatica e ha mormorato: «Questo ze el risotto co’ ‘e seppie…». E vomita nella tasca, respira profondamente: «Mi lo fasso anco co’ ‘e masanete… La ze bona come la fasso mi, se poi fidar». Poi è andato giù con la testa nella pentola.

A Barcellona, solo i cinquecento passeggeri stranieri sono scesi con le facce viola. Dei rimanenti duecentocinquanta, tutti italiani: venticinque si erano buttati in mare di fronte a Nizza, cento caduti fuori bordo durante la traversata del terribile Golfo del Leone. Il comandante Colombo si era buttato in mare subito dopo l’ uscita dalla diga foranea, con la testa ancora nell’ ombrelliera di rame. Centoventicinque calzolai di Milano si erano chiusi nelle loro cabine, e a chi bussava per stanarli rispondevano: «Tachete ti i tò tac! Che mi me tachi mi i mè tac!». L’unico straniero rimasto era un tedesco di Wiesbaden. Era seduto al bancone del bar di prima classe: «Prindo zum prosit a passecceri taliani che si comporta da stupidino, e ke sempre pefe fino, e canta con kitara e mantolino, baffo nero e mai dice ferità! Tice cosa e fa altra. Solo noi teteski furbi!». Tracanna un bicchiere di grappa friulana, nitrisce, fa una corsa di cento metri e urla: «Heil Hitler!» e si tuffa ad angelo nella piscina di prima classe. Era vuota!

Nel frattempo lungo la calata contavo i soldi: «Devo risparmiare, a Madrid ci arrivo in autostop».

Dal fondo della strada, ruggendo, arriva il terrificante tir turco. Una frenata oscena e il camion quasi cappotta clamorosamente. Si sono spalancate le porte e con gli occhi fosforescenti per l’ intenso desiderio sono scesi con un balzo Tarik, Tarok e il capobanda Baruk. Urlacchiando delle parole in un dialetto della Cappadocia, mi hanno abbrancato; ho iniziato a urlare come un maiale che sta per essere sgozzato: «Vi prego, nooo! Abbiate pietà! Non voglio fare la pecora!».

E Baruk: «Oggi pecora no in programma, perché tu fare cristiano» e mi hanno buttato come un sacco nell’ abitacolo del tir, che si è allontanato verso il tramonto.

Dopo quarantacinque ore di viaggio, a notte fonda, il camion è arrivato nel centro di Madrid fermandosi a Calle de Velàzquez. Con un cigolio sinistro si è aperta la portiera di destra e, a fatica, sono sceso zoppicando, questa volta in maniera madornale.

I turchi, sghignazzando in turco, sono ripartiti senza salutare. Ho urlato: «Mascalzoni! Vi denuncio alla Corte Suprema…».

Un guardiano notturno in bicicletta mi ha puntato alla tempia una rivoltella giocattolo. «Desculpame la curiosidad, està lingua che elio usa es sanscrito?»

«Perfetto! Lei è un uomo di cultura.»

«Escuciame, ma no comprendo el sanscrito.»