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«Grazie, molto umani! Ma per nuocervi mi butterò a improvvisare: ignobili colleghi, pezzi di merda — lo penso e non lo dico — voglio ricordare in questa luminosa giornata…» Fischi, la scarpa sinistra del bidello lo colpisce violentemente in pieno naso. Applauso fragoroso, mentre il Terraciano Marotta scompare dietro la cattedra. L’uditorio si avventa disordinatamente per uscire dalle finestre.

Ululato del Rettore: «Stronzonacciii! Siamo al sesto piano, evitiamo un massacro!».

Tutti gli accademici, sconsolati, riprendono posto mentre, da una finestra aperta, arriva un terribile urlo di donna e il tonfo agghiacciante di un corpo che si sfracella sul marciapiede.

Il Rettore verso la finestra: «Questa la voglio commemorare…» tira fuori dalla tasca un taccuino «… questa sera stessa! Dunque, ho ripreso il filo, eccolo: voglio ricordare la scomparsa del professor Mannaroni Turri».

Si alza il professor Turri: «Scusi, Rettore, se mi tocco a crudo entrambi i testicoli, ma io sono in piena salu…» e cade come corpo morto cade, folgorato da un ictus devastante.

Il Rettore, implacabile: «E questo poveretto, domani mattina alle 9, qui in Aula Magna. Dunque, riprendo: voglio commemorare la scomparsa del professor Mauro Mancini Torriani, mancato all’ affetto dei suoi cari dopo un’intera vita passata all’ ombra della famiglia».

Dall’ ultima fila dell’ emiciclo, il bidello: «Scusi, di che cosa è morto?».

«Insolazione! Comunque, andiamo avanti: voglio spendere due parole…» Dai banchi: «Tre!..».

Il bidello: «E siamo a tre, chi offre di più?».

«Quattro… cinque… sette e mezzo!»

Poi la voce autorevole del professor Pino Bellotti Bon: «Dodici!».

Il bidello: «Commemorazione assegnata al professor Bon con dodici parole!».

Si fa avanti il Bellotti Bon in un silenzio umiliante. Al suo passaggio si sente un odore di cane marcio dopo una giornata di pioggia. Sale in cattedra, si schiarisce la voce e attacca: «Vorrei spendere undici paro…». L’emiciclo balza tutto in piedi: «Non cominciamo a fregare! Lei si è impegnato per dodici!».

Il Bellotti: «Lo riconosco, ma sono intimorito perché sono a corto di congiuntivi. Comunque vada per dodici, voglio rischiare: se noi della Anormale di Pisa… fffffffff» un lungo soffio dall’ angolo delle labbra.

Il Rettore: «Bellotti, che cosa le succede, ha forato?».

«No, sono in spaventosa difficoltà con un congiuntivo. Volevo cominciare con il più arduo. Vado per tentativi?»

«Vadi!»

«Se noi, qui a Pisa, facettimo… no, scusate, fummo… fottimo…»

Il bidello, dall’ alto dell’ emiciclo: «Ma quando mai, vecchio impotente?!».

Il Bellotti respira a fatica. Riparte deciso: «Frassino!».

Il Rettore: «L’albero?».

«Fffff… fffirenze!»

Il bidello: «La città?!?».

Il Bellotti, questa volta quasi con fierezza: «Prato!».

Il Rettore, preoccupato: «Ma che c’entra, scusi?».

Il Bellotti, coprendosi il viso con le mani: «Avete ragione, ma è così vicina a Firenze…».

Il Rettore: «Bellotti, non ha più congiuntivi?».

Il Bellotti Bon si scopre il viso rigato di lacrime: «No, ne ho ancora uno! Ma me lo voglio tenere per la notte. Non si sa mai».

Il linguaggio dei critici d’arte

I critici d’arte, per umiliare il 90 per cento della popolazione, esclusi i non udenti e i malati di mente disposti a tutto, usano un linguaggio molto simile alla scrittura cuneiforme dei Sumeri. La loro missione è quella di tradurre i messaggi più segreti della pittura contemporanea e di rendere del tutto incomprensibili anche i preraffaelliti inglesi e i neorealisti.

Questo ho intuito dallo stato di smarrimento e di prostrazione di alcuni intellettuali di sinistra, avidi di geroglifici egizi, di scritture maya e fonemi di aborigeni australiani.

Incuriosito, mi sono infiltrato nelle ultime file, travestito da suora svizzera, a una conferenza dal titolo “Introduzione alla comprensione dell’ arte contemporanea”. Relatori i professori Vittorio Sgarbi e Achille Bonito Oliva.

Entro in una grande libreria del centro di Roma. Su scomode sedie circa 120 persone: 99 massaie rurali con borse della spesa ai piedi, due frati francescani che puzzano come iene, 12 precari, 5 non udenti, una escort e un travestito turco.

Sta parlando il professor Sgarbi: «Se negli ultimi decenni un salto di livello tecnologico ha posto in crisi l’ arte come scienza degli oggettimodello, spostandola verso una nuova direzione processuale, ecco finalmente comparire il cromatismo che interrompe l’ evaporazione dell’ opera oggetto. Attenendomi ai puri dati dell’ esperienza sensibile dell’ artista, voglio accentuare come, nelle sue tele, il progresso nel suo pieno e netto significato non viene ad accomodare o correggere, ma a demolire e abolire, permeando così l’ opera della significanza che già fu il fulcro e la semantica del “macchiaiolismo”».

Si abbattono due massaie, una in avanti e l’ altra all’ indietro. Entrambe emettono all’ unisono un urlo terrificante: «È terribile! Un meteorite gigante ha colpito la terra!». Entrambe, catatoniche, vengono portate via dal servizio d’ordine.

Sgarbi, implacabile: «Ma! E qui sta la straordinaria, adamantina purezza dell’ odierno impasto del pittore, immune dalla contaminazione teorica delle sibilline affermazioni del grande maestro fontebuonese, il quale con anarchica veemenza definì il progresso un assolutismo schizofrenico, alimentato dall’ ambivalenza terrena di arte e politica. Ecco il Pontorno, che ammannendo il suo estro, ignaro del possesso dei geni vetusti che in lui sussumevano l’ urgenza dell’ epifanico evento dell’ imporre la sua visione a distanza, ha eliminato il particolare, riducendo figure e cose alla scarna apparenza e spalmando l’ essenza del cromatismo oleoso a zone unitarie, a macchia, pur sempre con l’ accorto uso dei toni locali».

Vengono trascinati via, tra gli applausi, i corpi maleodoranti dei due francescani e portati alla discarica di Formelle che era chiusa. E quindi, ovviamente, nel centro di Napoli.

Interviene con violenza polemica Achille Bonito Oliva: «Vittorio, non sono d’accordo! Per me è vero il contrario! Difatti, eccoci apparire nuove relazioni volumetriche ed effetti prospettici. Una scelta radicale, volta, una volta e per tutte, a distruggere le diffuse e ottuse convenzioni accademiche attraverso l’ azione fortemente tipica e miracolistica degli antichi dagherrotipi: “Imprimere la lumière”».

Vengono portati via per i piedi i non udenti e tutti gli spettatori presenti tranne il cadavere del transessuale turco, morto di noia quasi subito.

Implacanìbile, continua Bonito Oliva: «Ecco che in questo nostro neocontemporaneismo, dove il pensiero azzarda la compenetrazione di due forme diversamente biologiche, quella naturale e quella artificiale dell’ arte, io dico: ben vengano le tele di Pontorno, che con il suo protagonismo neoconservatoristico ha saputo anche restituire dignità e performatività alla critica».

Interviene Sgarbi, con una violenza teatrale: «Oliva, non dire stronzate! Tu non sai che Pontorno…».

Lo interrompe Bonito: «Io? Io sono il primo che ha capito la grandezza…».

Sgarbi: «Semmai il secondo! Il primo sono io!».

«Non usare questo linguaggio teppistico…»

Sgarbi si avventa: «Zitto, cretino!» e gli stacca con un morso l’ orecchio destro. Bonito gli strappa cravatta e manica sinistra della giacca.

Sgarbi: «Scegliamo un giudice per pacificare questa assurda lite».

Bonito Oliva, conciliante: «Scegli chi vuoi».

Sgarbi guarda la sala vuota e poi va deciso verso il cadavere del transessuale turco. «Questo signore!» dice trionfante.