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La nave decollò a mezzanotte in punto per Callisto.

A un terzo del percorso verso l’orbita di Marte, sei uomini in tuta spaziale sbucarono in una grande sala che sembrava uscita dall’incubo di un tecnico.

Da un altoparlante alla parete la voce di Quentin chiese: «Cosa stai facendo qui, Van?»

«Oh, bene», disse Brown. «Ci siamo. E adesso facciamo in fretta. Cunningham, tu individua i collegamenti. Dalquist, tienti pronto con la pistola».

«Cosa devo cercare?» domandò il gigante biondo.

Brown lanciò un’occhiata a Talman: «Sei certo che non sia in grado di muoversi?»

«Ne sono certo», confermò Talman, muovendo gli occhi nervosamente. Si sentiva nudo, esposto com’era allo sguardo di Quentin, e questo non gli piaceva.

Cunningham, scarno, rugoso, disse, accigliandosi: «L’unica mobilità è nella propulsione stessa. Ne ero convinto ancora prima che Talman controllasse. Quando un transplant viene innestato per un lavoro, i suoi utensili sono unicamente quelli per il lavoro che deve compiere».

«Bene. Non perdete tempo in chiacchiere. Interrompete il circuito».

Cunningham aguzzò gli occhi attraverso il visore del casco. «Un momento. Questa non è l’attrezzatura standardizzata. È sperimentale… diversa. Devo prima rintracciare… uhm».

Talman, furtivamente, stava cercando d’individuare le lenti dell’organo della vista del transplant, ma non ci riuscì. Sapeva che in qualche punto di quel labirinto di cavi, tubi, griglie, magneti, valvole e ogni altro marchingegno messo su dai tecnici, Quentin teneva lo sguardo puntato su di lui. Anzi, non da un solo punto, ma da parecchi… Quentin doveva avere una visione d’assieme, con occhi distribuiti in modo strategico in tutta la sala.

Ed era davvero grande, quella sala dei controlli. La luce era d’un giallo fosco. Aveva l’aspetto d’una cattedrale aliena, torreggiante, così alta e spoglia, che finiva per ridurre le dimensioni dei sei uomini a quelle di sorci. Sotto i loro piedi, enormi, spoglie piastre metalliche ronzavano e vibravano; sopra di esse, grandi lampade fluorescenti irradiavano quella luce arcana. Sopra le loro teste, lungo le pareti, correva una lunga e stretta piattaforma metallica; alta sei metri da terra, era cinta da una bassa ringhiera. Due scalette ai lati opposti della sala consentivano di salirvi. Un globo azzurro era sospeso in alto, e l’aria, dal vago sentore di cloro, pulsava d’una grande, mormorante energia.

L’altoparlante disse ancora: «Questa è pirateria».

Brown replicò, in tono disinvolto: «La chiami pure così. E si metta tranquillo. Non le faremo del male. Potremo perfino rispedirla sulla Terra, se riusciremo a escogitare un modo sicuro per farlo».

Cunningham stava esaminando una griglia di lucite, stando bene attento a non toccarla. Quentin disse: «Non vale la pena dirottare questo cargo. Non sto trasportando radium, sapete».

«Mi serve una centrale atomica», replicò Brown, asciutto.

«Come avete fatto a salire a bordo?»

Brown sollevò una mano per asciugarsi il sudore dalla fronte, fece una smorfia e non rispose. «Trovato niente, ancora, Cunningham?»

«Dammi tempo. Sono soltanto un tecnico elettronico. Quest’impianto sembra fatto da un pazzo. Fern, viene qui a darmi una mano».

Talman sentì crescere il disagio. Si era accorto che Quentin, dopo il primo commento sorpreso, l’aveva ignorato… Un indefinibile, irrefrenabile impulso lo spinse ad alzare il capo e a fare il nome di Quentin.

«Dunque?» rispose Quentin. «Fai parte della banda?»

«Si».

«E laggiù, a Quebec, sei venuto a strapparmi informazioni. Ad accertarti che fossi innocuo».

Talman parlò, sforzandosi perché la sua voce non tremasse: «Dovevamo esserne certi».

«Capisco. Come avete fatto a salire a bordo? Il radar segnala subito qualunque massa in avvicinamento. Non avreste potuto abbordarmi nello spazio con la vostra nave».

«Non l’abbiamo fatto. Abbiamo eliminato l’equipaggio d’emergenza e ci siamo impadroniti delle loro tute».

«Eliminato?»

Talman girò gli occhi verso Brown. «Che altro potevamo fare? È un gioco troppo grosso, questo, per le mezze misure. Più tardi avrebbero costituito un pericolo per noi, al momento di dare praticamente inizio al nostro piano. Nessuno ne saprà mai niente, salvo noi. E tu».

Talman lanciò un’altra occhiata a Brown. «Quent, credo che farai meglio a passare dalla nostra parte».

L’altoparlante ignorò ogni minaccia implicita in quel suggerimento.

«Perché volete la centrale atomica?»

«Abbiamo scelto un asteroide», spiegò Talman, piegando di nuovo la testa all’indietro scrutando la grande cavità labirintica della nave, che pareva quasi ondeggiare tra foschi vapori velenosi. Si aspettava che Brown l’interrompesse, ma il grassone non parlò. Talman pensò che era stranamente difficile parlare in modo persuasivo con qualcuno di cui non si conosceva l’ubicazione. «L’unico guaio è che su un asteroide non c’è aria. Con la centrale atomica potremo produrcela da noi. E sarebbe un miracolo se qualcuno riuscisse a scoprire il nostro rifugio, nella Cintura degli Asteroidi».

«E poi, cosa? Pirateria?»

Talman non rispose. L’altoparlante disse pensieroso: «Sì, certo, potrebbe uscirne un bel racket. Per un po’, almeno. Quel tanto che basta a metter su un bel gruzzolo. Nessuno si aspetterà niente del genere… Sì, certo. Potreste ricavarne parecchio da questa vostra idea».

«Bene», fece Talman. «E se pensi questo, qual è il successivo passo, secondo logica?»

«Non quello che pensi tu. Non intendo stare al vostro gioco. Non tanto per ragioni morali, ma per motivi di autoconservazione. Per voi, sarei inutile. Soltanto in una civiltà ampia e complessa c’è bisogno di transplant. Per voi, sarei soltanto bagaglio superfluo».

«Se ti dessi la mia parola che…»

«Non sei tu il pezzo grosso», ribatté Quentin. Talman lanciò istintivamente un’altra occhiata interrogativa a Brown. E dall’altoparlante uscì un suono strano, come una risata soffocata.

«D’accordo», disse Talman, scrollando le spalle. «È naturale che tu non sia disposto a decidere subito a nostro favore. Pensaci su. Ricorda che non sei più Bart Quentin… hai certi impedimenti meccanici. Non abbiamo molto tempo, ma possiamo sempre concedertene un po’, diciamo dieci minuti, mentre Cunningham dà un’occhiata in giro. Poi… be’, qui non stiamo giocando a palline, Quent». Strinse le labbra. «Se passerai dalla nostra parte e guiderai la nave secondo i nostri ordini, potremo permetterci di lasciarti vivere. Ma devi decidere in fretta. Cunningham sta per snidarti. E quando avrà preso i comandi…»

«Cosa ti fa sentire tanto sicuro che io possa venir rintracciato?» gli chiese con calma Quentin. «So quanto varrebbe la mia vita una volta che vi avessi fatto atterrare dove volete. No, finirei senz’altro per raggiungere i sei uomini dell’equipaggio che avete liquidato. Vi darò io un’ultimatum».

«Tu… cosa?»

«State buoni e non mettetevi a pasticciare con niente, e vi farò atterrare su un punto isolato di Callisto, dandovi modo di fuggire», disse Quentin. «Se non lo farete, che Dio vi aiuti».

Per la prima volta Brown mostrò d’avere ascoltato quella voce remota. Si voltò verso Talman.

«Sta bluffando?»

Talman annuì lentamente. «Ma certo. È inoffensivo».

«È un bluff», ribadì Cunningham, senza alzare gli occhi dal suo lavoro.

«No», rispose l’altoparlante, sempre calmo, «non sto bluffando. Fai attenzione, tu, con quel pannello. Quei fili sono collegati con la centrale atomica. Se pasticcerai coi contatti, ci farai saltare tutti».