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«Sicuro».

«Be’, pensavo che avessi buone probabilità». Black rigirò il giavellotto. White non riusciva a capire se stava davvero cercando di seppellirlo o se era così preso dalle sue parole da dimenticare quel che facevano le sue mani. Una caratteristica simile poteva costare la vita a un Honor. White dovette concludere che era molto rara. «Buone probabilità», ripeté ostinatamente Black.

«Sta bene», disse White umettandosi le labbra, screpolate dagli orli della ferita inferta al petto dell’amsir.

«Ascolta, ragazzo, diventare adulti non significa soltanto farsi tagliare i capelli!». White notò che si stava arrabbiando, come avveniva quando qualcuno rifiutava di credere alle calotte. «Credi che possiamo permettere che un branco di ragazzini, anche figli di Honor, se ne vada in giro a raccontare ai contadini che cosa occorre per diventare un Honor? Credi che quei contadini non siano tutti convinti che anche loro potrebbero diventare Honor, se ne avessero il tempo? Credi che non faccia nessuna differenza per un Honor, quando accetta da un contadino un pezzo di pane, sapere che quello non potrebbe mai diventarlo?».

«Perché lui, invece, è un Honor che è tornato indietro vivo la prima volta».

«Esatto. Adesso cominci a capire. Non è quel che ti è stato insegnato… È quel che sei a fare di te un Honor!». Black guardò orgoglioso il fratello, un uomo che poteva considerare suo pari. Svelse il giavellotto dalla sabbia e lo brandì. «Perché tu hai affrontato questo!».

Sì, e animali che parlavano, e calotte che non funzionavano, e fratelli che impiegavano anni per prepararti alla notte in cui ti avrebbero atteso sulla via del ritorno. White Jackson guardò lo sciocco poderoso che l’aveva allevato. Non sapeva se doveva bere quella storia perché lui era tanto stupido da crederla, o perché Black era tanto stupido da crederla. In ogni caso, Black non era l’uomo che White aveva immaginato, quindi, come poteva lui vantarsi della propria intelligenza?

«Sta bene. Ho capìto».

Black lo guardò di sottecchi, nel grigiore del cielo. «Sei sicuro, ragazzo?». Lo supplicava di dargli le risposte di prammatica. Faceva il burbero e il duro, ma lo supplicava. White intuì che a modo suo Black gli voleva bene, e adesso si godeva il premio di tutti gli anni in cui aveva preparato il dono più grande che sapesse dare. «Intendo, non dirai niente di diverso, no? Voglio che tu sia ben sicuro di non spifferare nulla alla gente prima di averne parlato con l’Anziano. Tante volte, l’Honor Anziano riesce a spiegare tutto in un minuto o due. Lo spiega molto meglio di quanto possa farlo io», ammise.

White scrollò la testa. «Starò al gioco, come tutti gli Honor. Racconterò di avergli teso un’imboscata e di aver sostenuto una lotta tremenda e di aver vinto, ecco tutto».

«Sei sicuro?».

«Certo che sono sicuro».

Black cominciò a sospirare di sollievo, ma adesso White era arrabbiato con lui e non si decideva a lasciar perdere.

«Adesso, di’ all’Honor Anziano una cosa da parte mia. Digli che voglio sapere di un giavellotto metallico, che persino un amsir può lanciare più lontano di quanto io possa scagliare un dardo. Diavolo, un umano potrebbe lanciarlo per otto dozzine di braccia e cogliere un bersaglio: e quanti ne abbiamo nascosti? Voglio sapere perché la mia calotta ha smesso di funzionare, quando ero dietro una roccia. Voglio sapere tutto degli amsir che parlano. Digli da parte mia che secondo me è scemo, se ha lasciato che mio fratello venisse qui a parlarmi. Sei così sconvolto che io potrei farti fuori… anche se non mi fossi aspettato che tu tentassi di far fuori me». E concluse, lentamente: «Hai capito bene l’ultima parte, Black? Io sì. Ho capìto benissimo, la faccenda di un Honor, qui fuori, con le armi ma senza calotta. Ci sono solo due o tre cose che un Honor potrebbe uccidere qui fuori, con quell’arsenale. E una è un povero stupido Honor che cerca di tornare indietro, trascinandosi, con ferite da giavellotto che non si potrebbero spiegare, e l’altra è un giovane Honor che non vuole star zitto a proposito degli altri esseri con cui dividiamo la Creazione. Adesso vai a portare quel giavellotto dove tenete tutti gli altri. Non me ne andrò in giro a buttare all’aria i segreti degli Honor, soprattutto adesso che sono uno di loro; ma lasciami in pace finché mi sarà passata».

Si girò di scatto, e il suo amsir gli sferragliò alle spalle: puzzava come l’inferno. Si rendeva conto di essere molto ingenuo a offrire a Black tanti validi pretesti per scagliare il giavellotto in nome dei suoi principi. Ma ogni volta che White si infuriava e non lo lasciava vedere, per giorni e giorni piangeva di rabbia, silenziosamente, dentro di sé. Pensò che, se avesse continuato ad allontanarsi dal fratello che gli voleva tanto bene, avrebbe avuto una buona possibilità di cavarsela.

CAPITOLO 3

I

Era caldo e piacevole, al sole. Lui stava seduto a gambe incrociate, con la schiena contro il fianco nero e bruno della Spina. Teneva gli occhi socchiusi nella luce dell’aurora, ed era consapevole solo vagamente della gente che usciva alla spicciolata dalle basse case di cemento che circondavano la Spina, al di là della pista.

La pista formava uno spazio sgombro di terriccio nudo ampio due dozzine di braccia, intorno alla Spina, ed era lunga dodici volte una dozzina di dozzine di braccia, dal traguardo al traguardo. Red Filson, che aveva le gambe lunghe e l’aria di sapere tutto di tutto, a causa della cicatrice che gli sollevava la bocca e l’angolo dell’occhio sinistro, stava correndo con un gruppo di giovani tipo Honor. Quando passavano davanti a White Jackson, con i piedi nudi che facevano risuonare i tonfi prima nel suo orecchio destro e poi in quello sinistro, i giovani giravano gli occhi verso l’amsir disteso accanto a lui con le ali aperte.

Filson, con i lisci capelli biondi schiariti dal sole e incollati dal sudore, si limitò a sogghignare e continuò a divorare il terreno con i piedi, con quell’agile movimento a forbice che gli era servito per raggiungere e uccidere tante cose. E una di quelle cose era Black Olson, che era stato il padre di Black e di White Jackson. Era ancora il loro padre, pensava White, ma era morto, caduto con il braccio trafitto e gli occhi accecati da un taglio alla fronte.

Per la verità, White non aveva visto spesso il vecchio, dopo il giorno dell’assegnazione del nome. Gli sembrava di avere appena scoperto che il nome di suo padre era Jack, quando era entrato a far parte di una classe di aspiranti Honor, la classe istruita da Filson. White avrebbe dovuto essere sopraffatto dalla preoccupazione perché, tra un padre fuggiasco e una madre contadina, nessun Jackson avrebbe potuto tenere testa a Red Filson. White non era pronto a giurare su quello che passava per la mente di Black Jackson, con tutte le relative tortuosità; ma in quanto a lui, da molto tempo s’era accorto di non essere né sua madre né suo padre. Rimase seduto al sole, sorridendo lievemente, con le braccia abbandonate sulle cosce. Gli allievi continuavano a correre: i più giovani sudavano e borbottavano, Red sudava e sogghignava. White pensava che essere infuriato per l’umiliazione poteva essere una scusa comoda, se mai avesse deciso che c’era qualcosa che non voleva spartire con Honor Red Filson.

Il sole era piacevole. Adesso che stava seduto e non doveva far altro che lasciare agli altri il compito di fare qualcosa, White poteva permettersi di sentirsi insonnolito. E adesso era dove per tanto tempo aveva desiderato essere. Lì, contro la Spina, a sentire la superficie calda e scalfita, gradevolmente ruvida contro la schiena, e l’odore dolciastro dell’amsir che saliva intorno a lui. Adesso poteva liberarsi di tante cose che s’era tenuto chiuse dentro per molto tempo. Scrutò fra le ciglia socchiuse i verdi campi e i frutteti semisfocati oltre le case, e le ombre della gente che si radunava si muovevano agli angoli della sua visuale.