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Credevo disse: — Ecco alcuni della tua gente. Vorrai parlare con loro.

I turisti, in realtà, erano l’ultima specie che Gundersen desiderava vedere in quel momento. Avrebbe preferito locuste, scorpioni, serpenti velenosi, tirannosauri, rospi, qualsiasi cosa. Era appena uscito da una specie di esperienza mistica fra i nildor, la natura della quale poteva appena comprendere; isolato dalla sua razza, cavalcava verso la terra della rinascita, dibattendo problemi cruciali come la giustizia e l’ingiustizia, la natura dell’intelligenza, il rapporto fra umani e non-umani, lui stesso e il suo passato; soltanto pochi momenti prima era stato costretto a un confronto sgradevole, perfino doloroso, con il passato dalle abili domande di Credevo circa l’anima degli elefanti; ed ecco che di colpo si ritrovava di nuovo fra quegli individui vuoti, triviali, quegli archetipi dei turisti ciechi e ignoranti; e qualsiasi individualità si fosse guadagnato agli occhi del suo compagno nildor svaniva immediatamente, mentre ricadeva nella classe indifferenziata dei terrestri. Quei turisti, una parte della sua mente lo sapeva, non erano affatto vuoti e volgari come li vedeva lui; erano soltanto persone ordinarie, amichevoli, un poco sciocche, sovra-privilegiate, probabilmente esseri umani abbastanza soddisfacenti entro il contesto delle loro vite terrestri, che sembravano figure di cartapesta solo perché erano essenzialmente irrilevanti per il pianeta che avevano scelto di visitare. Ma non era ancora pronto perché Credevo lo perdesse di vista come una persona separata da tutti gli altri terrestri che venivano su Belzagor, e temeva che l’ondata di chiacchiere che sgorgava da quella gente l’avrebbe sommerso e trasformato in uno di loro.

Lo scarafaggio, che faceva uno sforzo evidente per trascinarsi dietro il rimorchio, si arrestò a una decina di metri dal lago. Ne uscì Van Beneker, con un aspetto più sudato e trasandato del solito. — Bene — gridò ai turisti. — Tutti a terra! Daremo un’occhiata a uno dei famosi laghi caldi! — Gundersen, montato in cima alla larga schiena di Credevo, ebbe la tentazione di dire al nildor di proseguire. Gli altri quattro nildor, avendo constatato la causa dei rumori, si erano già messi in moto ed erano quasi fuori vista, all’estremità opposta del lago. Ma decise di rimanere un po’; sapeva che un atteggiamento di snobismo nei confronti della sua specie non gli avrebbe fatto guadagnare alcun credito agli occhi di Credevo.

Van Beneker si voltò verso Gundersen e chiamò: — Buongiorno, signore. Piacere di vederla! Ha fatto buon viaggio?

Le quattro coppie terrestri scesero dal rimorchio. Erano pienamente in carattere, e si comportavano come Gundersen si aspettava secondo il suo crudo giudizio: sembravano annoiati e intossicati, sazi delle meraviglie aliene che avevano già visto. Stein, il proprietario del salone genetico, controllò doverosamente l’apertura della sua macchina fotografica, se la montò sul cappello e fece il solito ologramma a 360 gradi della zona; ma quando la stampa uscì dalla fessura, un momento dopo, non si preoccupò neppure di guardarla. L’atto di fare le foto, non le foto stesse, era la cosa significativa. Watson, il dottore, disse una battuta senza allegria a Christopher, il finanziere, che rispose con una risatina meccanica. Le donne, in disordine e sporche per il viaggio nella giungla, non prestarono la minima attenzione al lago. Due si appoggiarono semplicemente allo scarafaggio, in attesa che venisse loro detto cosa guardare, mentre le altre due, accorgendosi della presenza di Gundersen, presero delle maschere facciali dai loro zaini e se le infilarono sulla testa, per poter almeno presentare l’illusione di un viso adeguatamente truccato all’aitante estraneo.

— Non rimarrò qui a lungo — si sentì promettere Gundersen a Credevo mentre smontava.

Van Beneker gli si avvicinò. — Che viaggio! — esclamò l’ometto. — Che schifosissimo viaggio! Be’, dovrei esserci abituato ormai. Come vanno le cose, signor G?

— Non posso lamentarmi. — Gundersen indicò con un cenno il rimorchio. — Dove ti sei procurato quel trabiccolo infernale?

— L’abbiamo costruito un paio di anni fa, dopo che si è rotto il vecchio furgone. Lo usiamo per portare in giro i turisti quando non riusciamo a trovare nessun portatore nildor.

— Sembra una cosa da diciottesimo secolo.

— Be’, sa signore, da queste parti non ci resta molto in fatto di macchinali moderni. Siamo rimasti senza servomeccanismi e locomotori idraulici. Ma si trovano sempre delle tavole e delle ruote in giro. Ci arrangiamo.

— Cosa ne è stato dei nildor che ci hanno portato dallo spazioporto all’albergo? Gredevo fossero disposti a lavorare per voi.

— Qualche volta sì, qualche volta no — disse Van Beneker. — Sono imprevedibili. Non possiamo obbligarli a lavorare, e non possiamo assumerli. Possiamo solo chiedere gentilmente, e se dicono di non essere disponibili, è finita lì. Un paio di giorni fa hanno deciso che per un po’ non erano disponibili, così abbiamo dovuto tirare fuori il rimorchio. — Abbassò la voce. — Secondo me, è a causa di quegli otto babbuini. Credono che i nildor non capiscano l’inglese, e non fanno altro che dirsi l’un l’altro che peccato aver dovuto consegnare un pianeta così ricco a un branco di elefanti.

— Durante il viaggio spaziale — disse Gundersen — alcuni di loro manifestavano opinioni molto liberali. Almeno due di loro erano fortemente in favore dell’abbandono.

— Sicuro. Sulla Terra hanno abbracciato la decolonizzazione come teoria politica. “Restituiamo i mondi sfruttati agli indigeni oppressi” eccetera, adesso che sono qui, hanno deciso che i nildor non sono indigeni, ma solo animali, elefanti dall’aspetto buffo, e forse, dopo tutto, avremmo dovuto tenercelo il pianeta. — Van Beneker sputò. — E i nildor li ascoltano. Fanno finta di non capire, ma capiscono, eccome. Credi che abbiano voglia di portarsi gente simile sulla groppa?

— Capisco — disse Gundersen. Gettò un’occhiata ai turisti, i quali stavano guardando Credevo che era andato a strapparsi un po’ di ramoscelli teneri per pranzo. Watson diede una gomitata a Miraflores, che arricciò le labbra e scosse la testa, come in segno di disapprovazione. Gundersen non poteva sentire quello che dicevano, ma immaginava che stessero esprimendo disprezzo per l’entusiasmo che Credevo dimostrava nell’operazione. Evidentemente gli esseri civili non strappavano il loro cibo dagli alberi con la proboscide.

Van Beneker disse: — Si ferma a mangiare con noi, signor G?

— Molto gentile da parte tua — disse Gundersen.

Si accovacciò all’ombra mentre Van Beneker raccoglieva i suoi turisti e li conduceva fino alla riva del lago fumante. Quando furono arrivati, Gundersen si alzò e silenziosamente si unì al gruppo. Ascoltò il discorsetto della guida, ma riuscì a dedicare soltanto metà della sua attenzione a quanto veniva detto. — Zona di vita ad alta temperatura… più di 70 gradi… al di sopra del punto di ebollizione in certi posti, eppure degli organismi ci vivono… adattamento genetico… termofili li chiamiamo, che vuol dire amanti del calore… il DNA non viene cotto, ma il tasso di mutazione spontanea è maledettamente alto, e le specie cambiano così in fretta che non lo credereste… gli enzimi resistono al calore… mettete gli organismi del lago in acqua fredda e gelano nel giro di un minuto… processi vitali straordinariamente rapidi… le proteine denaturate possono funzionare quando le circostanze sono tali che… abbiamo tutta la gamma, fino al livello medio del ceppo… un ambiente ristretto, senza interazioni con il resto del pianeta… gradienti termici… studi quantitativi… il famoso biologo cinetico, il dottor Brock… distruzione termale continua delle molecole sensibili… re-sintesi incessante…

Credevo si stava ancora rimpinzando di rami. Sembrava a Gundersen che mangiasse molto di più di quanto facesse normalmente a quell’ora. I rumori della vegetazione strappata e masticata si scontravano con il salmodiare scientifico di Van Beneker.