Sganciandosi dalla cintura una rete bio-sensibile, Van Beneker cominciò a prelevare dal lago campioni della fauna, per l’edificazione del gruppo. Teneva in mano l’impugnatura della rete, e regolava i quadranti sulla massa e la lunghezza della preda desiderata; la rete, montata all’estremità di una bobina di sottile filo metallico quasi infinitamente espansibile, si muoveva sotto la superficie del lago cercando organismi delle dimensioni programmate. Quando i suoi sensori avvertivano la presenza di materia vivente, la sua bocca si spalancava e si richiudeva veloce. Van Beneker la ritirò, portando a terra qualche infelice prigioniero intrappolato insieme a una certa quantità del suo caldissimo ambiente.
Dal lago emerse una creatura dopo l’altra, dalla pelle rossa, l’aspetto bollito, ma viva, che si dimenava rabbiosamente. C’era un pesce corazzato, nascosto da luccicanti placche, abbellito da ornamenti ed escrescenze fantastiche. Poi una cosa simile a un’aragosta, che agitava una lunga coda munita di aculei e dondolava feroci occhi in cima a peduncoli. Dal lago emerse anche una specie di unica, gigantesca chela, con un minuscolo corpo. Non c’erano due delle grottesche prede di Van Beneker che fossero uguali. Il calore del lago, ripeté, induce frequenti mutazioni. Sciorinò una seconda volta l’intera spiegazione genetica, mentre ributtava nel loro brodo caldo un piccolo mostro dopo l’altro e gettava di nuovo la rete.
La genetica delle creature termofile parve attirare l’attenzione di uno solo dei turisti, Stein, che in qualità di proprietario di un salone specializzato nel trattamento cosmetico dei geni umani, non era inesperto in fatto di mutazioni. Rivolse un paio di domande dall’aria intelligente a Van Beneker, che naturalmente non fu in grado di rispondere; gli altri si limitarono a guardare, aspettando pazientemente che la loro guida finisse di mostrare loro buffi animali, e li portasse da qualche altra parte. Gundersen, che non aveva mai avuto occasione in precedenza di osservare gli abitanti di un lago ad alta temperatura, apprezzò l’esibizione, anche se la vista delle prede che si contorcevano ben presto lo annoiò. Aveva fretta di riprendere il cammino.
Si guardò intorno, e scoprì che Credevo era sparito.
— Quello che abbiamo preso questa volta — stava dicendo Van Beneker — è l’animale più pericoloso del lago, quello che chiamiamo squalo-rasoio. Solo che non ne ho mai visto uno simile prima. Vedete queste piccole corna? Assolutamente nuove. E quella specie di lanterna in cima alla testa, che lampeggia? — Nella rete si agitava una sottile creatura cremisi lunga circa un metro. L’intera pancia, dal muso alla coda, era apribile, formando in effetti una gigantesca bocca con centinaia di denti sottili come aghi. Mentre la bocca si apriva e si chiudeva, sembrava che l’intero animale si spaccasse in due, poi si rimarginasse. — Questa bestia si nutre di prede fino a tre volte le sue dimensioni — disse Van Beneker. — Come potete vedere, è feroce e selvaggia, e…
A disagio, Gundersen si allontanò dal lago, alla ricerca di Credevo. Trovò il posto dove il nildor aveva mangiato, e i rami inferiori di parecchi alberi erano stati denudati. Vide quella che sembrava la traccia del nildor, che si addentrava nella giungla. Un doloroso lampo di desolazione gli attraversò il cranio, mentre si rendeva conto che Credevo doveva averlo abbandonato.
In questo caso il suo viaggio avrebbe dovuto essere interrotto. Non osava addentrarsi da solo, a piedi, in quelle regioni selvagge, prive di sentieri. Avrebbe dovuto chiedere a Van Beneker di riaccompagnarlo in qualche accampamento nildor, dove forse avrebbe trovato un altro mezzo per raggiungere il paese delle nebbie.
Il gruppo di turisti stava risalendo dalla riva del lago. La rete penzolava dalle spalle di Van Beneker; Gundersen vide alcune creature del lago che si muovevano lentamente dentro di essa.
— La cena — disse. — Ho preso qualche granchio gelatinoso. Avete fame?
Gundersen fece un sorriso forzato. Osservò, per nulla affamato, Van Beneker aprire la rete. Un’ondata di acqua calda ne uscì, portando con sé otto o dieci creature ovali, color porpora, ciascuna diversa dall’altra per numero di zampe, segni sui gusci e dimensioni delle chele. Strisciarono in lenti cerchi, evidentemente mal sopportando la relativa freddura dell’aria. Nuvole di vapore si alzavano dalle loro schiene. Con fare esperto, Van Beneker li infilzò con stecchi appuntiti e li cucinò con la torcia a fusione, poi aprì i gusci rivelando i pallidi regolatori metabolici all’interno, che tremolavano come gelatina. Tre delle donne voltarono la testa, con una smorfia, ma la signora Miraflores prese il suo granchio e lo mangiò con gusto. Gli uomini parvero apprezzare. Gundersen, mangiucchiando senza entusiasmo la gelatina, scrutava la foresta e si preoccupava per Credevo.
Frammenti di conversazione lo raggiunsero.
— …enorme profitto potenziale, completamente sprecato…
— …comunque, è nostro dovere incoraggiare l’autodeterminazione su tutti i pianeti che…
— …ma sono persone?
— …bisogna guardare l’anima, è l’unico modo per dire se…
— …elefanti, e nient’altro che elefanti. L’avete visto come strappava le foglie degli alberi e…
— …la decolonizzazione è stata voluta da una minoranza vociante di cuori teneri che…
— …niente anima, niente autodeterminazione…
— …sei troppo duro, caro. Ci sono stati abusi veri e propri su alcuni pianeti, e…
— …stupido opportunismo politico, lo chiamo io. Il cieco che fa da guida al cieco…
— …sanno scrivere? Sanno pensare? Anche in Africa avevamo a che fare con esseri umani, e anche qui…
— …l’anima, lo spirito interiore…
— …non occorre che ti dica quanto fossi in favore della decolonizzazione. Ti ricordi, ho fatto firmare la petizione, e tutto il resto. Ma devo ammettere che dopo aver visto…
— …mucchi di escrementi rossi sulla spiaggia…
— …so che il profitto annuo era dell’ordine di…
— …non c’è dubbio che possiedano un’anima. Nessun dubbio. — Gundersen si rese conto che la sua voce era entrata nella conversazione. Gli altri si voltarono dalla sua parte; ci fu un vuoto improvviso da riempire. Disse: — Possiedono una religione, e questo implica la consapevolezza dell’esistenza di uno spirito, di un’anima, non vi pare?
— Che tipo di religione? — chiese Miraflores.
— Non so bene. Una parte importante di questa è la danza estatica… una specie di ballo frenetico che porta a una sorta di esperienza mistica. Lo so. Ho danzato con loro. Ho avuto almeno un barlume di questa esperienza. E hanno una cosa che si chiama rinascita, che suppongo sia centrale nei loro rituali. Non so cosa sia. Vanno verso nord, nella zona delle nebbie, e lì succede loro qualcosa. Hanno sempre mantenuto il segreto sui particolari. Credo che i sulidoror diano loro qualcosa, qualche droga forse, che li ringiovanisce interiormente, e porta a una specie di illuminazione… non so se sono stato chiaro. — Gundersen, mentre parlava, stava quasi inconsciamente divorando il mucchio di granchi rimasti. — Tutto quello che posso dirvi è che la rinascita è di importanza vitale per loro, e sembra che la posizione dei membri di una tribù derivi dal numero di rinascite subite. Perciò vedete che non sono solo animali. Hanno una società, una cultura, complesse e difficili per noi da capire.
Watson chiese: — Perché non hanno una civiltà, allora?
— Vi ho appena detto che ce l’hanno.
— Voglio dire città, macchine, libri…
— Non sono fisicamente equipaggiati per scrivere, per costruire, per le piccole manipolazioni — disse Gundersen. — Non vedete che non hanno mani? Una razza dotata di mani crea un tipo di società. Una razza fatta come gli elefanti ne crea un’altra. — Era inzuppato di sudore, e il suo appetito era diventato improvvisamente insaziabile. Le donne, si accorse, lo stavano guardando in maniera strana. Capì il perché: stava spazzando via tutto il cibo disponibile, riempiendosi la bocca senza riuscire ad arrestarsi. Di colpo, la sua pazienza andò in frantumi, e sentì che il cranio gli sarebbe esploso se non avesse lasciato cadere tutte le barriere e ammesso la grande colpa che, trafiggendogli l’anima, l’aveva spronato a quella strana odissea. Non importava che quelle non fossero le persone giuste a cui chiedere l’assoluzione. La parole gli uscirono incontrollabili dalle labbra, e disse: — Quando arrivai qui ero come voi. Disprezzavo i nildor. Il che mi condusse a un doloroso peccato, che devo spiegarvi. Vedete, sono stato amministratore di settore per un po’, e uno dei miei compiti era di organizzare nella maniera più efficiente il lavoro indigeno. Dal momento che non ci rendevamo pienamente conto che i nildor erano esseri intelligenti e autonomi, li usavamo, li facevamo lavorare nei cantieri, sollevando travi con la proboscide, qualsiasi cosa pensavamo fossero capaci di maneggiare mediante la pura forza dei muscoli. Davamo gli ordini, come se fossero macchine. — Gundersen chiuse gli occhi, e sentì il passato precipitargli addosso, inesorabile, una nuvola nera di ricordi che lo avvolse e lo sopraffece. — I nildor si lasciavano usare, sa Dio perché. Immagino che fossimo il crogiolo in cui la loro razza doveva essere purgata. Be’, un giorno una diga crollò, nel distretto di Monroe, verso nord, non lontano da dove comincia la zona delle nebbie, e un’intera piantagione di fogliespine rischiava di essere inondata, con una perdita per la Compagnia di chissà quanti milioni. E anche la principale centrale elettrica del distretto era in pericolo, insieme al quartier generale della nostra stazione, e… basti dire che se non ci fossimo mossi subito avremmo perso tutti i nostri investimenti nel nord. Era mia responsabilità. Cominciai a reclutare nildor per costruire una seconda linea di dighe. Mettemmo al lavoro tutti i robot disponibili, ma non ne avevamo abbastanza, così ricorremmo anche ai nildor, e lunghe file arrivavano da ogni parte della giungla, e lavorammo notte e giorno, fino all’esaurimento. Stavamo sconfiggendo l’inondazione, ma non potevo esserne certo. E il sesto giorno andai alla diga per vedere se l’ondata successiva sarebbe passata, e c’erano sette nildor che non avevo mai visto prima, che marciavano verso nord. Dissi loro di seguirmi. Loro rifiutarono, molto gentilmente. Dissero che erano in cammino verso la zona delle nebbie, per la cerimonia di rinascita, e non si potevano fermare. Rinascita? Che mi importava della rinascita? Non intendevo sentire scuse, specialmente quando rischiavo di perdere il mio intero distretto. Senza pensarci ordinai loro di presentarsi a rapporto per lavorare alla diga, altrimenti li avrei giustiziati sul posto. La rinascita può aspettare, dissi. Andateci un’altra volta. Questa è una faccenda seria. Loro abbassarono la testa e infilarono le punte delle proboscidi nella terra. È un segno di grande tristezza per loro. I loro aculei si abbassarono. Tristi. Tristi. Abbiamo pietà di te, mi disse uno di loro, e io mi arrabbiai, e gli dissi cosa poteva farsene della sua pietà. Chi gli dava il diritto di avere pietà di me? Poi presi la mia torcia a fusione. Avanti, muovetevi, c’è una squadra che ha bisogno di aiuto. Tristi. Grandi occhi che mi guardavano con pietà. Zanne a terra. Due o tre dei nildor dissero che gli spiaceva molto, non potevano fare alcun lavoro per me in quel momento, era impossibile interrompere il viaggio. Ma erano pronti a morire lì sul posto, se insistevo. Non volevano danneggiare il mio prestigio sfidandomi, ma dovevano sfidarmi, perciò erano disposti a pagare il prezzo. Ero sul punto di bruciarne uno, come esempio agli altri, poi mi fermai e mi dissi: Cosa diavolo stai facendo?, e i nildor attendevano, e i miei aiutanti mi guardavano, e così alcuni degli altri nildor, e sollevai di nuovo la torcia a fusione, dicendomi che ne avrei ucciso uno, quello che mi aveva detto di avere pietà di me, sperando di far ragionare gli altri. Loro aspettavano. Come se volessero vedere il mio bluff. Come potevo bruciare sette pellegrini, anche se avevano sfidato l’ordine diretto di un capo settore? Ma la mia autorità era in questione. Così schiacciai il pulsante. Gli feci solo una bruciatura sulla pelle, poco profonda; ma il nildor non si mosse, e nel giro di qualche minuto avrei raggiunto qualche organo vitale. E così mi macchiai ai loro occhi, usando la forza. Era quello che aspettavano. Poi un paio di nildor, che sembravano più vecchi degli altri, dissero: Fermati, vogliamo ripensarci, e io spensi la torcia, e loro si appartarono, per discutere. Quello che avevo bruciato zoppicava un po’, sembrava gli facesse male, ma non era ferito gravemente, non gravemente quanto me. Colui che preme il grilletto può farsi più male del suo bersaglio, lo sapevate questo? E alla fine tutti i nildor accettarono di fare quello che volevo io. Così invece di andare a nord per la rinascita, andarono a lavorare alla diga, anche quello bruciato, e nove giorni dopo il colmo dell’inondazione si ritirò, e la piantagione, la centrale e tutto il resto furono salvi, e vivemmo felici e contenti. — La voce di Gundersen si spense. Aveva fatto la sua confessione, e adesso non poteva più guardare in faccia quella gente. Prese il guscio dell’ultimo granchio rimasto, e l’esplorò alla ricerca di qualche brandello di gelatina, sentendosi svuotato e prosciugato. Ci fu una pausa interminabile di silenzio.