Avvicinandosi a Credevo disse: — Sono pronto a partire.
Il nildor si inginocchiò. Gundersen montò.
— Dov’eri andato? — chiese il terrestre. — Mi ero preoccupato quando sei sparito.
— Ho pensato che era meglio lasciarti solo con i tuoi amici — disse Credevo. — Perché ti sei preoccupato? Ho l’obbligo di portarti sano e salvo fino al paese delle nebbie.
8
La conformazione della terra era senza dubbio cambiata. Stavano uscendo dal cuore della giungla equatoriale per entrare nell’altopiano che conduceva alla zona delle nebbie. Il clima era ancora tropicale, ma l’umidità non era più così intensa. L’atmosfera, invece di stringere ogni cosa in un costante abbraccio appiccicaticcio, rilasciava periodicamente l’umidità sotto forma di pioggia, e dopo la pioggia l’aria diventava limpida e leggera, finché l’umidità non si rinnovava. Anche la vegetazione era diversa: angolosa, dura, con foglie affilate come lame. Molti alberi avevano un fogliame luminescente, che di notte gettava una fredda luce sulla foresta. C’erano meno rampicanti, e le cime degli alberi non formavano più una coltre continua, che intercettava la maggior parte dei raggi solari. Chiazze di luce brillante screziavano il tappeto della foresta, che talvolta si allargava fino a formare radure e prati. Il suolo, dilavato dalle frequenti piogge, aveva una pallida tinta azzurra, non il nero intenso della giungla. Piccoli animali correvano fra il sottobosco. Con passo più lento si muovevano solenni creature simili a lumache verde-azzurre con mantelli color ebano, che Gundersen riconobbe come funghi mobili degli altopiani: piante che strisciavano da un posto all’altro in cerca di rami caduti o di tronchi spezzati dal fulmine. Sia i nildor che gli uomini trovavano la loro polpa molto delicata.
La sera del terzo giorno di viaggio dal lago bollente, Srin’gahar e Gundersen raggiunsero gli altri quattro nildor. Erano accampati ai piedi di una collina dentellata a forma di mezzaluna, ed evidentemente erano lì da un giorno almeno, a giudicare dalla distruzione che avevano operato sul fogliame tutto intorno. Le proboscidi e i musi, sporchi di succhi luminosi, brillavano intensamente. Insieme a loro c’era un sulidor, di gran lunga il più grosso che Gundersen avesse mai visto, quasi due volte l’altezza di un uomo, con un naso pendulo lungo quanto un avambraccio. Il sulidor era in piedi accanto a un masso incrostato di muschio blu, le gambe larghe e la coda, a mo’ di tripode, che sorreggeva il peso. Occhi stretti sorvegliavano Gundersen da sotto scure arcate sopraccigliali. Le lunghe braccia, terminanti con terrificanti artigli ricurvi, penzolavano in riposo. La pelliccia del sulidor era del colore di bronzo antico, insolitamente spessa.
Una delle candidate per la rinascita, una femmina nildor di nome Luu’khamin, disse a Gundersen: — Il nome del sulidor è Na-sinisul. Desidera parlarti.
— Parli pure.
— Preferisce che tu sappia, prima, che non è un sulidor di tipo ordinario. È uno di coloro che amministra la cerimonia della rinascita, e lo rivedremo quando ci avvicineremo al paese delle nebbie. È un sulidor di rango e di merito, e le sue parole non devono essere prese alla leggera. Lo terrai a mente, quando lo ascolterai?
— Lo farò. Io non prendo alla leggera le parole di nessuno, su questo mondo, ma lo ascolterò con attenzione al di là di ogni dubbio. Che parli.
Il sulidor avanzò di qualche passo e ancora una volta si piantò fermamente sui piedi forniti di sproni, infilandoli a fondo nel suolo elastico. Quando parlò, era in un nildororu con un forte accento del nord: profondo, lento, preciso.
— Sono stato in viaggio — disse Na-sinisul — fino al Mare di Polvere, e ora sto tornando alla mia terra per aiutare nella preparazione dell’evento della rinascita, a cui parteciperanno questi cinque viaggiatori. La mia presenza qui è del tutto casuale. Comprendi che io non sono in questo luogo per qualche particolare proposito che riguardi te o i tuoi compagni?
— Comprendo — disse Gundersen, stupefatto dal modo preciso e enfatico di parlare del sulidor. Aveva conosciuto i sulidoror solo come figure scure, selvagge, dall’aspetto feroce, nascoste in misteriose radure.
Na-sinisul proseguì: — Passando qui vicino, ieri, sono capitato per caso sul luogo di una vecchia stazione della vostra Compagnia. Sempre per caso, ho voluto dare un’occhiata dentro, anche se non erano fatti miei entrare. Dentro ho visto due terrestri, i cui corpi avevano cessato di servirli. Erano incapaci di muoversi, e riuscivano appena a parlare. Mi hanno chiesto di farli partire da questo mondo, ma non potevo fare una cosa del genere di mia autorità. Perciò ti chiedo di seguirmi fino a questa stazione e di darmi istruzioni. Ho poco tempo, e deve essere fatto subito.
— Quanto è lontana?
— Potremmo essere di nuovo qui prima del sorgere della terza luna.
Gundersen disse a Srin’gahar: — Non ricordo che esistesse una stazione della Compagnia, qui. Dovrebbe essercene una a un paio di giorni di cammino verso nord, ma…
— Questo è il luogo dove il cibo che striscia veniva raccolto e spedito lungo il fiume — disse il nildor.
— Qui? — Gundersen alzò le spalle. — Si vede che ho perso di nuovo l’orientamento. Va bene, andrò. — A Na-sinisul disse: — Guidami, ti seguo.
Il sulidor si mosse veloce attraverso la foresta luminosa, e Gundersen, sopra Srin’gahar, lo seguì da vicino. La strada sembrava in discesa, e l’aria si fece calda e scura. Anche il paesaggio cambiò: gli alberi qui possedevano radici aeree che si curvavano verso l’alto come scarni gomiti, e i sottili viticci che uscivano dalle radici emettevano una vivida luminescenza verde. Il suolo era friabile e roccioso. Gundersen poteva sentirlo scricchiolare sotto i passi di Srin’gahar. Degli uccelli erano appollaiati su molte radici. Erano creature simili a gufi che sembravano prive di ogni colore; alcune erano bianche, altre nere, alcune screziate di bianco e di nero. Non riusciva a capire se fosse il loro vero mantello, o se la luminescenza della foresta li privasse di colori. Una fragranza nauseante proveniva da grandi e pallidi fiori parassitari che crescevano sui tronchi degli alberi.
Accanto a un affioramento di roccia gialla, corrosa dalle intemperie, c’erano i resti della stazione. Sembrava ancora più diroccata della stazione dei serpenti: la cupola del soffitto era crollata e spire di saprofite dagli steli robusti avevano ricoperto le pareti, nutrendosi forse dei prodotti di decomposizione che la pioggia erodeva dalle lastre di plastica. Srin’gahar fece smontare Gundersen. Il terrestre esitò, all’ingresso dell’edificio, aspettando che il sulidor prendesse la guida. Una sottile pioggia calda cominciò a cadere; l’odore della foresta cambiò immediatamente, facendosi da acre dolce. Ma era la dolcezza della decomposizione.
— I terrestri sono dentro — disse Na-sinisul. — Puoi entrare. Attendo tue istruzioni.
Gundersen entrò nell’edificio. L’odore di putredine era ancora più forte qui, concentrato forse dalla curva del tetto sfondato. L’umidità avvolgeva tutto. Si chiese quale sorte di virulente spore inalasse ad ogni respiro. Qualcosa gocciolava nel buio, producendo un ticchettio forte, che si sovrapponeva a quello più leggero della pioggia che entrava dalle falle del tetto. Per farsi luce Gundersen estrasse la torcia a fusione. Il chiarore bianco e caldo si sparse per la stazione. Subito sentì uno sbattere di ali intorno alla faccia, mentre qualche creatura termotropica veniva svegliata e attratta dal calore della torcia. Gundersen la cacciò via; una sostanza appiccicosa gli rimase attaccata alla punta delle dita.