Dov’erano i terrestri?
Fece cautamente il giro dell’edificio. Lo ricordava vagamente, adesso… una delle innumerevoli stazioni nella giungla che un tempo la Compagnia aveva sparso per il Mondo di Holman. Il pavimento era crepato e deformato, e lo costringeva a procedere con difficoltà. I funghi mobili strisciavano dappertutto, divorando la feccia che ricopriva tutte le superfici interne dell’edificio e lasciandosi dietro dei solchi luccicanti. Gundersen doveva fare attenzione a dove metteva i piedi, per non calpestare le creature, e non sempre ci riusciva. Raggiunse un punto dove l’edificio si allargava. Mosse intorno il raggio della torcia, e scorse un molo annerito che si protendeva sulla riva di un rapido fiume. Sì, ora ricordava. I funghi lì venivano raccolti in balle e spediti lungo il fiume, verso il mercato. Ma i barconi della Compagnia non si fermavano più al molo, e le gustose lumache pallide si aggiravano tranquillamente sui relitti di mobili e apparecchiature coperti di muschio.
— C’è nessuno? — chiamò Gundersen. — C’è nessuno?
In risposta ottenne un lamento. Incespicando e scivolando nella penombra, combattendo contro un’ondata di nausea, avanzò in un labirinto di invisibili ostacoli. Raggiunse la fonte del suono gocciolante. Qualcosa di un rosso brillante, a forma di cesto e grande circa come il petto di un uomo, era appeso in alto su una parete, perpendicolare al pavimento. Attraverso grossi pori della sua superficie spugnosa trasudava un liquido nero e denso, in continue gocce oleose. Quando il raggio della torcia di Gundersen la toccò, la trasudazione crebbe, trasformandosi quasi in un flusso continuo di liquido sebaceo. Quando scostò il raggio, il flusso rallentò, pur restando intenso.
In quel punto il pavimento scendeva, cosicché il liquido trasudante dal cesto spugnoso si raccoglieva sul lato opposto della stanza. Qui Gundersen trovò i terrestri. Giacevano fianco a fianco su un basso materasso; il fluido della cosa gocciolante aveva formato una pozza scura intorno a loro, coprendo completamente il materasso e lambendo i loro corpi. Uno dei terrestri, la testa che penzolava da una parte, aveva la faccia completamente immersa nel fluido. Dalla bocca dell’altro giungevano i lamenti.
Erano entrambi nudi. Un uomo e una donna, anche se Gundersen ebbe qualche difficoltà a capirlo, inizialmente: erano entrambi talmente raggrinziti ed emaciati che le caratteristiche sessuali sparivano. Non avevano peli, neppure sopracciglia, e le ossa sporgevano dalla pelle simile a pergamena. Entrambi tenevano gli occhi aperti, ma fissi come se non vedessero, senza un battito di ciglia, vitrei. Le labbra lasciavano scoperti i denti. Alghe grigiastre crescevano fra i solchi della pelle, e i funghi mobili passavano sui loro corpi, nutrendosi di esse. Con un gesto automatico e veloce di disgusto, Gundersen strappò due delle creature simili a lumache dai seni vuoti della donna. Lei si mosse; emise un lamento. In lingua nildor mormorò: — È finita? — La sua voce era come un flauto suonato da una stanca brezza del deserto.
Parlando in inglese Gundersen disse: — Chi siete? Cosa è successo?
Non ottenne risposta. Un fungoide le passò sulla bocca, e lui lo gettò via. Le toccò la guancia. Ci fu un suono raschiante mentre la sua mano le passava sulla pelle; era come accarezzare della carta rigida. Cercando di ricordarla, Gundersen immaginò capelli scuri sul cranio nudo, le diede sopracciglia inarcate, vide le sue guance piene e la bocca sorridente. Ma non trovò niente; o l’aveva dimenticata, o non l’aveva mai conosciuta, o era irriconoscibile nella sua condizione presente.
— Finirà presto? — chiese ancora una volta, in nildororu.
Gundersen si rivolse al compagno. Delicatamente, temendo che il collo fragile potesse spezzarsi, sollevò la testa dell’uomo dalla pozza di fluido. Sembrava che l’avesse respirato; gli colava dalla bocca e dal naso, e dopo un momento mostrò chiari sintomi che non era in grado di respirare l’aria normale. Gundersen gli lasciò scivolare di nuovo la faccia nella pozza. In quel breve momento aveva riconosciuto l’uomo come un certo Harold (o Henry?) Dykstra, che aveva incontrato qualche volta ai vecchi tempi.
La donna sconosciuta stava cercando di muovere un braccio. Le mancava la forza di sollevarlo. Quei due erano come fantasmi viventi, come zombie, invischiati nel loro liquido appiccicoso e del tutto inermi. Nella lingua dei nildor disse: — Da quanto tempo siete così?
— Da sempre — sussurrò lei.
— Chi sei?
— Non… ricordo. Io… aspetto.
— Cosa?
— La fine.
— Ascolta — disse lui — io sono Edmund Gundersen, ero capo settore una volta. Voglio aiutarvi.
— Uccidimi per prima. Poi lui.
— Vi porterò via di qui, allo spazioporto. Partirete per la Terra fra una settimana o dieci giorni, poi…
— No… ti prego…
— Cosa vi è successo?
— Voglio finirla. Voglio finirla. — La donna trovò la forza sufficiente per inarcare il corpo, sollevandolo per metà dal fluido che quasi le nascondeva la parte inferiore. Qualcosa si mosse, provocando un rigonfiamento sotto la sua pelle. Gundersen toccò la pancia tesa e sentì un movimento dentro, e quel tremito rapido fu la sensazione più spaventosa che avesse mai provato in vita sua. Toccò anche il corpo di Dykstra: anch’esso aveva quel tremito interiore.
Costernato, Gundersen si rimise in piedi e arretrò. Alla pallida luce della torcia, studiò i corpi raggrinziti, nudi e senza sesso, ossa e legamenti, privi di carne e di spirito, eppure vivi. Una paura terribile lo assalì. — Na-sinisul! — chiamò. — Vieni qui! Entra!
Il sulidor, pochi momenti dopo, fu al suo fianco. Gundersen disse: — C’è qualcosa dentro i loro corpi. Un parassita? Si muove. Cos’è?
— Guarda qui — disse Na-sinisul, indicando il cesto spugnoso da cui colava il liquido scuro. — Portano i suoi piccoli. Sono diventati ospiti. Un anno, due anni, forse tre, e le larve emergeranno.
— Perché non sono morti?
— Si nutrono da questo — disse il sulidor, sferzando con la coda il liquido nero. — Penetra nella pelle. Li nutre e nutre ciò che hanno dentro.
— Se li trasportassimo all’hotel su delle zattere…?
— Morirebbero — disse Na-sinisul — non appena fossero tolti dal liquido. Non c’è speranza di salvarli.
— Quando finisce? — chiese la donna.
Gundersen tremava. Tutto il suo addestramento gli diceva di non accettare mai l’inevitabilità della morte. Qualsiasi essere umano in cui restasse qualche brandello di vita poteva essere salvato, ricostruito a partire da pochi resti di cellule in una ragionevole replica dell’originale. Ma non c’erano attrezzature per far questo, sul Mondo di Holman. La sua mente passò vertiginosamente in rassegna una serie di possibilità. Lasciarli lì, perché le cose aliene si nutrissero delle loro interiora; cercare di portarli allo spazioporto e imbarcarli per il più vicino ospedale tectogenetico; sollevarli immediatamente dalla loro agonia; cercare lui stesso di liberare i loro corpi da ciò che li rendeva schiavi. Si inginocchiò di nuovo. Si costrinse a sentire ancora quel fremito interiore. Toccò lo stomaco della donna, le cosce, le anche ossute. Sotto la pelle, era un ammasso di sostanza aliena. Eppure la sua mente ancora funzionava, anche se aveva dimenticato il suo nome e la sua lingua natale. L’uomo era più fortunato: benché fosse anch’egli infestato, almeno non doveva attendere al buio la morte che sarebbe giunta solo quando le larve sarebbero uscite dalla carne resa schiava. Era questo che avevano desiderato, rifiutando il rimpatrio da quel mondo che amavano? Un terrestre può essere catturato da Belzagor, gli aveva detto il nildor molte-volte-nato, Vol’himyor. Ma quella era una cattura troppo letterale.