Il fetore di putrefazione gli diede i conati di vomito.
— Uccidili tutti e due — disse a Na-sinisul. — E fai in fretta.
— È questo che mi istruisci di fare?
— Uccidili. E strappa quella cosa dal muro, e uccidi anche lei.
— Non ha fatto nulla di male — disse il sulidor. — Ha fatto solo ciò che è naturale per la sua specie. Uccidendo quei due, la priverò dei suoi piccoli, ma non sono disposto a privarla anche della vita.
— Va bene — disse Gundersen. — Soltanto i terrestri, allora. In fretta.
— Faccio questo come atto di misericordia, dietro tuo ordine diretto — disse Na-sinisul. Si chinò e sollevò un braccio potente. Gli artigli ricurvi emersero interamente dalle loro guaine. Il braccio scese due volte.
Gundersen si costrinse a guardare, i corpi si aprirono come gusci secchi. Le cose all’interno rotolarono fuori, ancora informi. In un inconcepibile riflesso i due corpi si contorsero, sussultarono. Gundersen fissò le loro viscere erose. — Mi sentite? — chiese. — Siete vivi o morti? — La bocca della donna si aprì, ma non ne uscì alcun suono, e non capì se si trattava di un tentativo di parlare o soltanto dell’ultima convulsione dei nervi devastati. Portò la torcia a fusione alla massima potenza e la puntò sulla pozza scura. Sono la resurrezione e la vita, pensò, riducendo Dykstra in cenere, e la donna accanto a lui, e le larve che si contorcevano. Un fumo acre e soffocante si alzò; neppure la torcia poteva distruggere l’umidità dell’edificio. Riportò la torcia a livello di illuminazione. — Vieni — disse al sulidor, ed uscirono insieme.
— Avrei voglia di bruciare l’intero edificio, e di purificare questo posto - disse Gundersen a Na-sinisul.
— Lo so.
— Ma tu me lo impediresti.
— Ti sbagli. Nessuno su questo mondo ti impedirebbe di fare alcunché.
Ma a cosa sarebbe servito… si chiese Gundersen. La purificazione era già stata fatta. Aveva rimosso gli unici esseri in quel posto che fossero estranei a esso.
La pioggia era cessata. A Srin’gahar in attesa Gundersen disse: — Mi porti via da qui?
Raggiunsero gli altri quattro nildor. Poi, essendosi fermati troppo a lungo lì, ed essendo la terra della rinascita ancora lontana, ripresero la marcia, benché fosse notte. Verso il mattino, Gundersen poté sentire il rombo delle Cascate di Shangri-la, che i nildor chiamano Du’jayukh.
9
Era come se una parete bianca di acqua scendesse dal cielo. Nulla sulla Terra poteva uguagliare il triplo salto di quella cataratta, con cui il Fiume di Madden, o il Seran’nee precipitava di 500 metri, poi di 600, poi di altri 500, da un cornicione all’altro, nella sua corsa verso il mare. Gundersen e i cinque nildor si fermarono ai piedi della cascata, dove l’intera, violenta massa d’acqua precipitava in un vasto bacino circondato da rocce, da cui il fiume serpentino proseguiva nel suo corso verso sud-est; il sulidor aveva preso congedo durante la notte, e procedeva verso nord lungo la sua strada. Alle spalle di Gundersen giaceva, verso destra, la pianura costiera, e verso sinistra l’altopiano centrale. Davanti a lui, in cima alle cascate, iniziava l’altopiano settentrionale, che controllava l’accesso al paese delle nebbie. Così come una titanica fenditura da nord a sud separava la pianura costiera dall’altopiano centrale, un’altra fenditura, da est a ovest, divideva tanto l’altopiano centrale quanto la pianura costiera dalle terre alte davanti a loro.
Si tuffò in una pozza cristallina, appena prima del tumulto della cataratta, poi iniziarono la salita. La stazione di Shangri-la, una delle più importanti della Compagnia, era invisibile dal basso, essendo posta a una certa distanza dall’inizio delle cascate. Una volta c’erano state delle stazioni intermedie, ai piedi delle cataratte e in cima a quella di mezzo, ma nessuna traccia di queste strutture rimaneva. La giungla le aveva completamente inghiottite nel giro di otto anni. Una strada tortuosa, con un’infinità di tornanti, portava fino alla cima. La prima volta che l’aveva vista, Gundersen aveva pensato che fosse opera degli ingegneri della Compagnia, ma apprese in seguito che era un cornicione naturale, che i nildor stessi avevano allargato per rendere più facili i loro viaggi verso la rinascita.
L’ondeggiare della sua cavalcatura gli conciliava il sonno. Strinse forte le corna simili a pomelli di Srin’gahar, sperando di non cadere, nel dormiveglia. Una volta si svegliò d’improvviso, e si trovò aggrappato solo con la sinistra, con il corpo che per metà penzolava su un precipizio di almeno 200 metri. Un’altra volta, venne risvegliato da una doccia fredda, e vide l’intera cascata precipitare a non più di una dozzina di metri da lui. In cima alla cataratta inferiore, i nildor si fermarono per mangiare, e Gundersen si spruzzò la faccia con acqua gelida, per uscire dal suo torpore. Proseguirono. Ebbe meno difficoltà a rimanere sveglio, questa volta; l’aria era più sottile, e la brezza fresca. Un’ora prima del tramonto raggiunsero la cima delle cascate.
La stazione di Shangri-la, apparentemente immutata, era davanti a lui: tre blocchi rettangolari, di dimensioni diverse, in scintillante plastica scura, una cupa ziggurat che si innalzava sulla riva occidentale della stretta gola attraverso cui scorreva il fiume. Il giardino di piante tropicali, piantato da un capo settore almeno quarant’anni prima, sembrava ben curato. Su ogni terrazza dell’edificio c’era una veranda che guardava sul fiume, e anche queste erano adorne di piante. Gundersen sentì la gola diventargli secca, le reni irrigidirsi. Disse a Srin’gahar: — Quanto tempo possiamo fermarci qui?
— Quanto tempo desideri fermarti?
— Un giorno, due… non so ancora. Dipende dall’accoglienza che riceverò.
— Non siamo molto in ritardo. I miei amici e io ci accamperemo nella macchia. Quando sarà il momento per te di ripartire, vieni da noi.
I nildor si addentrarono lentamente fra le ombre. Gundersen si avvicinò alla stazione. All’ingresso del giardino si fermò. Gli alberi erano contorti e piegati, con lunghe fronde simili a piume grigie, penzolanti; la flora delle terre alte era diversa da quella del sud, anche se l’estate perpetua regnava lì come nei veri tropici che si erano lasciati alle spalle. Delle luci brillavano dentro la stazione. Tutto sembrava sorprendentemente in ordine, all’esterno; il contrasto con le rovine della stazione dei serpenti e l’incubo della stazione dei fungoidi era netto. Neppure il giardino dell’hotel era così ben tenuto. Quattro file ordinate di candele di foresta, rosee e dall’aspetto osceno, correvano lungo il vialetto che portava all’edificio. Alberi di fiori-globo, sottili e imponenti, carichi di frutti giganteschi, formavano delle piccole macchie, a destra e a sinistra. C’erano alberi di hullygully e di fruttamara: piante esotiche, lì, importate dagli umidi tropici equatoriali, e imponenti fiorispada in piena fioritura, che alzavano i loro lunghi stami rilucenti verso il cielo. Eleganti viticci di edera luccicante e di spiceburr strisciavano sul terreno, ma non a casaccio. Gundersen fece qualche passo e sentì il sospiro lieve e triste di un cespuglio di sensifronia, le cui foglie coperte di una delicata peluria si ritirarono mentre passava, per tornare cautamente ad aprirsi quando si fu allontanato, richiudendosi di nuovo quando si voltò a gettare loro un’occhiata. Altri due passi e trovò un albero basso, il cui nome non riusciva a ricordare, con lucide foglie rosse dotate di ali, che si alzarono in volo, abbandonando i loro steli delicati; immediatamente le loro sostitute cominciarono a crescere. Il giardino era magico. Ma c’erano delle sorprese. Al di là dell’edera luccicante scoprì un tratto a forma di mezzaluna di muschio tigre, la pianta carnivora nativa dell’altopiano centrale. Il muschio era stato trapiantato in altre parti del pianeta (ce n’era un’aiuola che cresceva fuori controllo all’hotel sulla costa), ma Gundersen ricordava che Seena lo detestava, così come tutti gli altri prodotti di quel minaccioso altopiano. Peggio ancora, seguendo con lo sguardo le foglie volanti, Gundersen vide grandi masse di tremolante gelatina, attraversate di fibre neurali blu e rosse, che penzolavano da parecchi degli alberi più grandi: altre piante carnivore, anch’esse native dell’altopiano centrale. Cosa ci facevano quelle cose sinistre nel giardino incantato? Un momento dopo ebbe una terza prova che il terrore di Seena per l’altopiano era svanito: una delle grassocce creature simili a lontre, che li avevano perseguitati durante l’atterraggio di fortuna sull’altopiano, gli attraversò la strada. Si fermò un attimo, il naso che vibrava, le abili zampette alzate, cercando qualcosa da afferrare. Gundersen sibilò minacciosamente, e la creatura sparì fra i cespugli.