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Una massiccia figura a due gambe emerse da un angolo in ombra e gli bloccò il cammino. Gundersen pensò per un attimo che fosse un sulidor, poi si rese conto che era soltanto un robot, probabilmente un giardiniere. Disse con voce risonante: — Uomo, perché siete qui?

— Sono un visitatore. Un viaggiatore che cerca rifugio per la notte.

— La donna vi aspetta?

— Sono sicuro di no. Ma sarà lieta di vedermi. Ditele che è arrivato Edmund Gundersen.

Il robot lo scrutò con attenzione. — Glielo riferirò. Restate dove siete e non toccate nulla.

Gundersen aspettò. Passò un lasso di tempo che gli parve troppo lungo. Il crepuscolo scivolò verso la notte, e apparve una luna. Alcuni degli alberi nel giardino divennero luminosi. Un serpente, del genere usato un tempo come fonte di veleno, strisciò silenziosamente attraverso il vialetto, proprio di fronte a Gundersen, e svanì. Il vento cambiò direzione, facendo frusciare le foglie degli alberi e portandogli il mormorio di una conversazione di nildor, da qualche punto non molto lontano dalla riva del fiume.

Poi il robot tornò e disse: — La donna vi vedrà. Seguite il vialetto ed entrate nella stazione.

Gundersen salì i gradini. Sul portico dell’ingresso delle piante sconosciute, in vaso, sparse qua e là, come in attesa di essere trapiantate nel giardino. Parecchie di esse agitarono dei viticci verso di lui, o fecero la peggiore delle luci destinate ad attirare fatalmente vicino delle prede curiose. Entrò e, non vedendo nessuno al piano terreno, afferrò una scala a spira penzolante e si lasciò trasportare alla prima veranda. Osservò che la stazione era mantenuta con la stessa impeccabile cura fuori che dentro: ogni superficie era pulita e splendente, i murali decorativi non apparivano sbiaditi, i manufatti provenienti da molti mondi erano a posto nelle loro nicchie. La stazione era sempre stata un fiore all’occhiello, ma fu stupito di trovarla ancora così elegante, in quegli anni in cui la presenza della Terra su Belzagor era in decadenza.

— Seena? — chiamò.

La trovò sola sulla veranda, appoggiata alla balaustra. Alla luce delle due lune vide il solco profondo fra le natiche, e pensò che avesse scelto di incontrarlo nuda; ma mentre si voltava verso di lui si rese conto che uno strano abito copriva la parte anteriore del suo corpo. Era una sostanza pallida e gelatinosa, priva di forma, color porpora, con l’aspetto traslucido che, immaginava, potesse avere un’ameba. La massa centrale le abbracciava la pancia e i lombi, lasciandole nude le anche e le cosce; anche il seno sinistro era nudo, mentre un largo pseudopodo si stendeva su quello destro. Gundersen poteva vedere chiaramente l’occhio rosso del capezzolo coperto, e la piccola concavità dell’ombelico. Doveva essere anche viva, in un certo grado, perché cominciò a fluire, apparentemente di propria volontà, emettendo pigri filamenti che le circondarono la coscia sinistra e l’anca destra.

La repellente bizzarria di quell’abito lo lasciò stupefatto. A parte quello, sembrava la Seena di sempre, solo un po’ ingrassata, i seni più pesanti, le anche più larghe. Ma era sempre una bella donna, nell’ultimo fiore della giovinezza. Ma la Seena di un tempo non avrebbe mai permesso a quella cosa aliena di toccarle la pelle.

Lei lo guardò con calma. I lucidi capelli neri le scendevano sulle spalle, come in passato. La faccia era priva di rughe. Lo fissava senza vergogna, i piedi fermamente piantati a terra, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la testa alta. — Credevo che non saresti più tornato qui, Edmund — disse. La sua voce si era fatta più profonda, indicando un approfondimento interiore, anche. Quando la conosceva lui, tendeva a parlare troppo in fretta, in tono nervosamente alto; adesso, calma e perfettamente posata, parlava con la ricca risonanza di un violoncello. — Perché sei tornato? — chiese.

— È una storia lunga, Seena. Non riesco neppure io a capirla bene. Posso fermarmi qui questa notte?

— Naturalmente! Era inutile chiederlo.

— Hai un bellissimo aspetto, Seena. Forse perché mi aspettavo… dopo otto anni…

— Una vecchia megera?

— Be’, non esattamente. — Incontrò i suoi occhi, e rimase scosso dalla rigidità che vi incontrò, uno sguardo fisso e inflessibile, una luminescenza perlacea che gli ricordava orribilmente l’espressione negli occhi di Dykstra e della sua donna nella stazione. — Io… non so cosa mi aspettassi.

— Il tempo è stato buono anche con te, Edmund. Hai un aspetto deciso, disciplinato adesso… Tutta la debolezza bruciata dagli anni, lasciando solo il nucleo di virilità. Non hai mai avuto un aspetto migliore.

— Ti ringrazio.

— Non vuoi baciarmi? — chiese lei.

— So che sei una donna sposata.

Lei fece una smorfia e strinse un pugno. Anche la cosa che indossava reagì, assumendo un colore più profondo e lanciando uno pseudopodo a circondarle, senza nasconderlo, il seno nudo. — Dove l’hai sentito? — chiese.

— Sulla costa. Van Beneker mi ha detto che hai sposato Jeff Kurtz.

— Sì. Non molto dopo che te ne sei andato, in effetti.

— Capisco. È qui?

Lei ignorò la domanda. — Non vuoi baciarmi? O hai degli scrupoli a baciare le mogli di altri uomini?

Lui fece una risata forzata. Goffamente, a disagio, la prese per le spalle attirandola verso di sé. Era una donna alta. Inclinò la testa, cercando di toccarle le labbra senza che alcuna parte del suo corpo entrasse in contatto con l’ameba. Lei si ritrasse prima del bacio.

— Di cosa hai paura? — chiese.

— Questa cosa che hai addosso mi rende nervoso.

— Lo sdrucciolo?

— Se si chiama così.

— È così che lo chiamano i sulidoror — disse Seena. — Viene dall’altopiano centrale. Si attacca a uno dei grossi mammiferi e vive metabolizzando il sudore. Non è splendido?

— Credevo che odiassi l’altopiano.

— Oh, tanto tempo fa. Ci sono tornata molte volte. Ho riportato lo sdrucciolo dall’ultimo viaggio. È insieme un animaletto domestico e un vestito. Guarda. — Lo toccò leggermente, e la cosa passò attraverso tutta una serie di colori, espandendosi man mano che si avvicinava all’estremità blu dello spettro, contraendosi verso il rosso. Nella sua massima estensione, formò una tunica completa, che copriva Seena dalla gola alle cosce. Gundersen si accorse di qualcosa di scuro e pulsante al centro della creatura, appena sopra i lombi, che le nascondeva il triangolo pubico: il centro nervoso, forse. — Perché non ti piace? — chiese. — Prova ad appoggiarci una mano. — Lui non si mosse. Lei gli prese la mano e se l’appoggiò su un fianco; la superficie dello sdrucciolo era fredda e secca, niente affatto viscida. Seena gli spostò la mano verso l’alto, finché non arrivò a toccare il globo pesante di un seno, e immediatamente lo sdrucciolo si contrasse, lasciando la carne ferma e calda nuda sotto le sue dita. Per un momento lui lo strinse, poi ritrasse la mano, a disagio. Il capezzolo le si era irrigidito, le narici dilatate.