— Tu credi che l’aver messo in scena l’equivalente locale di una messa nera abbia condotto Kurtz al destino che cerchi di nascondermi?
— Io lo so — replicò Seena. Si alzò in piedi, si stirò voluttuosamente e lo chiamò con un cenno. — Torniamo alla stazione, adesso.
Come se quella fosse la prima alba del tempo, camminarono nudi nel giardino, vicini, il calore del sole e il calore del corpo di Seena che lo eccitavano suscitando una specie di febbre in lui. Per due volte fu sul punto di gettarla a terra e di prenderla fra quei cespugli alieni, e per due volte si trattenne, senza sapere il perché. Quando furono a una decina di metri dalla casa, sentì nuovamente il desiderio montargli dentro, e si voltò verso di lei, appoggiandole una mano sul seno. Ma lei disse: — Dimmi un’altra cosa.
— Se posso.
— Perché sei tornato su Belzagor? Veramente. Cosa ti attira nella terra delle nebbie?
Lui disse: — Se credi nel peccato, devi credere anche nella redenzione dal peccato.
— Sì.
— Bene. Anch’io ho un peccato sulla mia coscienza. Forse non grave come quelli di Kurtz, ma sufficiente a disturbarmi, e sono tornato qui per un atto di espiazione.
— Come hai peccato? — chiese lei.
— Ho peccato contro i nildor nel modo normale dei terrestri, collaborando a renderli schiavi, trattandoli con sufficienza, non riuscendo a comprendere la loro intelligenza e la loro complessità. In particolare ho peccato impedendo a sette nildor di arrivare in tempo alla rinascita. Ricordi quando crollò la diga di Monroe, e arruolai a forza quei pellegrini per i lavori? Usai una torcia a fusione per costringerli a obbedire, e per colpa mia persero la rinascita. Non sapevo che se fossero arrivati in ritardo avrebbero perso il loro turno, e anche se l’avessi saputo, non avrei pensato che importava. Un peccato dentro un peccato dentro un peccato. Me ne andai da qui sentendomi macchiato. Quei sette nildor mi tormentavano nei miei sogni. Ho capito che dovevo tornare e cercare di purificare la mia anima.
— Che genere di espiazione hai in mente? — chiese lei.
Lui ebbe difficoltà a incontrare i suoi occhi. Li abbassò, ma fu ancora peggio, perché la nudità di Seena lo turbò ancora di più, nella luce del sole fuori della stazione. Si costrinse a rialzare gli occhi.
Disse: — Ho deciso di scoprire cos’è la rinascita, e prendervi parte. Intendo offrirmi ai sulidoror come candidato.
— No.
— Seena, che c’è? Tu…
Lei tremava. Le guance le si erano infuocate, e il rossore si diffuse fino ai suoi seni. Si morse le labbra e gli girò le spalle di scatto. — È una follia — disse. — La rinascita non è cosa per i terrestri. Come puoi pensare di espiare qualcosa immischiandoti in una religione aliena, abbandonandoti a un processo su cui nessuno di noi sa niente…
— Devo, Seena.
— Non essere pazzo.
— È un’ossessione. Tu sei la prima persona a cui ne abbia mai parlato. I nildor con cui sto viaggiando non lo sanno. Non posso fermarmi. Devo a questo pianeta una vita, e sono qui per pagare. Devo andare, quali che siano le conseguenze.
Seena disse: — Entra nella stazione con me. — La sua voce era piatta, meccanica, vuota.
— Perché?
— Vieni.
Lui la seguì in silenzio. Lei lo condusse fino al piano di mezzo dell’edificio, in un corridoio bloccato da uno dei robot guardiani. A un cenno della donna, il robot si fece da parte. Sulla soglia di una porta in fondo all’edificio, lei si fermò e appoggiò la mano sullo scanner. La porta si aprì, e lei gli fece cenno di entrare con lei.
Gundersen sentì il grugnito che aveva sentito la sera prima, e questa volta non ci fu alcun dubbio nella sua mente che si trattava di un grido soffocato di tremendo dolore.
— Questa è la stanza dove passa il suo tempo Kurtz — disse Seena. Tirò una tenda che divideva la stanza. — E questo è Kurtz.
— Non è possibile — mormorò Gundersen. — Come… come…
— Come ha fatto a diventare così?
— Sì.
— Invecchiando cominciò a sentire rimorso per i crimini commessi. Soffriva grandemente per la sua colpa, e l’anno scorso decise di intraprendere un atto di espiazione. Decise di andare nel paese delle nebbie e di sottoporsi alla rinascita. Questo è ciò che mi hanno riportato. Questo è l’aspetto che assume un essere umano, Edmund, dopo che si è sottoposto alla rinascita.
11
Ciò che Gundersen vide era apparentemente umano, e probabilmente un tempo era perfino stato Jeff Kurtz. L’assurda lunghezza del corpo era senza dubbio propria di Kurtz, poiché la figura nel letto sembrava lunga una volta e mezzo un uomo normale, come se una sezione extra di vertebre, e magari un secondo paio di femori fossero stati inseriti. Anche il cranio era chiaramente quello di Kurtz: la grande calotta bianca, le arcate sporgenti. Queste erano ancora più prominenti di quanto Gundersen ricordasse. Si levavano al di sopra degli occhi chiusi come barricate a guardia di qualche invasione da nord. Ma le fitte sopracciglia nere che avevano coperto quelle arcate erano sparite. E così pure le sopracciglia lunghe, quasi femminili.
Sotto la fronte la faccia era irriconoscibile.
Era come se fosse stata fusa in un crogiuolo e lasciata scorrere. Il naso dritto e alto era diventato una protuberanza gommosa, simile in maniera sconvolgente a quello di un sulidor. La bocca larga aveva adesso labbra flosce che penzolavano aperte, rivelando gengive senza denti. Il mento era inclinato all’indietro, come quello di un pitecantropo. Gli zigomi, piatti e larghi, alteravano del tutto la fisionomia della faccia.
Seena tirò indietro la coperta, per rivelare il resto. Il corpo nel letto era completamente privo di peli, una lunga cosa rosa, che sembrava essere stata bollita, simile a una grossa lumaca senza guscio. Tutta la carne superflua era sparita, e la pelle era distesa come un sudario su ossa e muscoli chiaramente delineati. Le proporzioni del corpo erano sbagliate: la vita si trovava a una distanza impossibile dal torace, e le gambe per quanto lunghe non lo erano come avrebbero dovuto essere; le caviglie sembravano addossate alle ginocchia. Le dita dei piedi si erano fuse in zampe animalesche. Forse per compenso le dita delle mani avevano sviluppato nuove giunture, e sembravano adesso zampe di ragno che si contraevano in maniera irregolare. La giuntura fra le braccia e il busto aveva qualcosa di strano, ma fu solo quando Gundersen vide Kurtz roteare lentamente il braccio sinistro in un arco di 360 gradi, che si rese conto che l’ascella doveva essere stata ricostruita in una sorta di versatile snodo a sfera. Kurtz fece uno sforzo disperato per parlare, farfugliando delle parole in una lingua che Gundersen non aveva mai sentito. I globi oculari si mossero visibilmente sotto le palpebre. La lingua scivolò fuori per inumidire le labbra. Qualcosa di simile a un pomo di Adamo con tre protuberanze gli salì lungo la gola. Per un momento inarcò il corpo, tendendo la pelle su ossa curiosamente allargate. Continuò a parlare. Di tanto in tanto una parola intelligibile in inglese o in nildororu emergeva, fra un flusso di suoni confusi: — Fiume… morte… perso… orrore… fiume… caverna… caldo… perso… rovina… nero… andare… dio… nato… perso… nato…
— Cosa sta dicendo? — chiese Gundersen.
— Nessuno lo sa. Anche quando riusciamo a capire le parole, non hanno senso. E di solito non si capiscono neppure le parole. Parla nella lingua del mondo dove ora vive. Una lingua solo sua.