— Il sulidor non si sbagliava rammentando di aver avuto contatto con te — disse Srin’gahar cortesemente. — Devo dirti che ci sono testimoni degni di fede di quest’evento.
— Quando? Dove?
— È stato molto tempo fa — disse Srin’gahar. Il nildor parve trovare sufficiente questa risposta vaga, perché non aggiunse altri dettagli. Dopo pochi momenti di silenzio, aggiunse: — Il sulidor aveva buone ragioni per avercela con te, credo. Ma noi gli abbiamo detto che tu intendevi fare ammenda di tutti i tuoi atti passati, e alla fine ha ceduto. I sulidoror sono spesso una razza ostinata e vendicativa.
— Ma cosa gli ho fatto? — volle sapere Gundersen.
— Non occorre parlare di queste cose — replicò Srin’gahar.
Dal momento che il nildor a questo punto si ritrasse in un silenzio impenetrabile, Gundersen ebbe tutto il tempo per meditare sull’ambiguità grammaticale dell’ultima frase. Sulla base del solo contenuto verbale, avrebbe potuto voler dire: “È inutile parlare di queste cose,” oppure “Sarebbe imbarazzante per me parlare di queste cose”, oppure “Non è opportuno parlare di queste cose”, o anche “Sarebbe di cattivo gusto parlare di queste cose”. Soltanto con l’aiuto dei gesti supplementari, dei movimenti degli aculei della cresta, della proboscide, delle orecchie, il significato preciso poteva essere inteso, e Gundersen non aveva né l’abilità, né si trovava nella posizione giusta per individuare questi gesti. Era perplesso, perché non ricordava di aver mai recato offesa a un sulidor, e non poteva comprendere come avesse potuto farlo anche indirettamente o involontariamente; ma dopo un po’ concluse che Srin’gahar voleva essere misterioso di proposito, e forse parlava mediante parabole troppo sottili o aliene perché una mente umana le comprendesse. In ogni modo il sulidor aveva ritirato le sue obiezioni al viaggio di Gundersen, e il paese delle nebbie era ormai vicino. Già il fogliame degli alberi era più rado di quanto lo era stato un chilometro o due prima, gli alberi stessi più piccoli e distanziati fra di loro. I banchi di fitta nebbia erano adesso più frequenti. In molti punti il suolo giallo e sabbioso era esposto. Tuttavia l’aria era ancora calda e limpida, il sottobosco fitto, il sole dorato ben visibile; quello era ancora innegabilmente un luogo dal clima mite, perfino normale.
D’improvviso Gundersen sentì un vento freddo soffiare dal nord, segnale di mutamento. Il sentiero scendeva per un leggero pendio, e quando si innalzò nuovamente, apparve un grande campo, completamente desolato, una terra di nessuno fra la giungla e il paese delle nebbie. Nessun albero, nessun cespuglio, neppure del muschio cresceva; c’era solo il suolo giallo, sparso di pietre. Oltre questa zona sterile, Gundersen vide una bianca muraglia che scintillava vivamente di luce solare riflessa; apparentemente era una parete di ghiaccio alta centinaia di metri che bloccava la via, fin dove poteva spingersi lo sguardo. Molto lontano, oltre e sopra questa parete di ghiaccio, si innalzava la punta di una montagna altissima, di un colore rosso pallido, con guglie, picchi, cornicioni frastagliati che si stagliavano nettamente contro un cielo grigio-ferro. Ogni cosa appariva più grande del vero, massiccia, mostruosa, eccessiva.
— Qui devi camminare da solo — disse Srin’gahar. — Mi spiace molto, ma è il costume. Non posso portarti oltre.
Gundersen smontò. Non gli spiaceva il cambiamento; sentiva che doveva avviarsi alla rinascita da solo, e ormai si vergognava di essere stato seduto sopra Srin’gahar per tanti chilometri. Ma inaspettatamente si trovò ad ansimare dopo non più di cinquanta metri di strada percorsi accanto al nildor. Il passo era lento e regolare, ma lì evidentemente l’aria era più sottile. Nascose con uno sforzo la sua difficoltà. Si sentiva la testa leggera, gli pareva di galleggiare, ma sarebbe riuscito a dominare l’ansimare del suo petto e il pulsare nelle tempie. La frescura nuova che si sentiva nell’aria lo rinvigoriva con la sua austerità. Erano a metà della zona vuota, e adesso Gundersen poteva chiaramente vedere che quella che gli era sembrata una solida barriera bianca era in realtà una densa muraglia di nebbia che arrivava fino a terra. Tentacoli staccatisi da quella nebbia gli baciarono la faccia. Al suo tocco appiccicoso, immagini di morte sorsero nella sua mente, crani e tombe e bare e veli, ma non lo atterrirono. Guardò la montagna rosa che dominava la terra, verso nord, e in quel momento le nuvole che si stendevano sul paese delle nebbie si aprirono, lasciando che il sole colpisse la cima più alta della montagna, una cupola innevata di grandi dimensioni, e gli parve allora che la faccia di Kurtz, trasfigurata e serena, lo guardasse da quella liscia cima arrotondata.
Dal biancore innanzi a loro emerse la figura di un vecchio sulidor, gigantesco: Na-sinisul, che teneva fede alla promessa fatta di essere loro guida. I sulidoror che li avevano accompagnati fin lì scambiarono qualche parola con Na-sinisul e tornarono verso la giungla. Na-sinisul fece un gesto. Camminando accanto a Srin’gahar, Gundersen avanzò.
Pochi minuti dopo, la processione entrava nella nebbia.
Una volta dentro di essa, non trovò la nebbia così solida. Per la maggior parte del tempo riusciva a vedere per venti, trenta, perfino cinquanta metri in ogni direzione. A volte incontravano inesplicabili vortici di nebbia, molto più densi, in mezzo ai quali riusciva appena a distinguere la grande massa di Srin’gahar accanto a lui. Ma erano pochi, e di non grande estensione. Il cielo era grigio e senza sole. In certi momenti, il disco solare si poteva distinguere come un bagliore vago oltre le nuvole. Il paesaggio era di nuda roccia, terra arida e bassi alberi… praticamente una tundra, anche se l’aria era solo fresca, non veramente fredda. Molti degli alberi appartenevano a specie presenti anche a sud, ma erano più piccoli, distorti, talvolta privi della forma di veri alberi, striscianti a terra come rampicanti legnosi. Gli alberi che crescevano dritti non erano più alti di Gundersen, e un muschio grigio ricopriva ogni ramo. Gocce di umidità ricoprivano le foglie, gli steli, le rocce e ogni cosa.
Nessuno parlava. Marciarono per forse un’ora, finché la schiena di Gundersen non fu piegata, e i piedi insensibili. Il terreno saliva impercettibilmente; l’aria sembrava farsi sempre più sottile; la temperatura si abbassò bruscamente, mentre il giorno finiva. La triste coltre di nebbia che avvolgeva ogni cosa, infinita, mise a dura prova il morale di Gundersen. Quando aveva visto la parete di nebbia, dall’esterno, scintillante sotto il sole, l’aveva affascinato ed eccitato; ma una volta dentro non lo divertiva affatto. Luce e calore erano spariti dall’universo. Non poteva neppure scorgere la grande montagna rosa.
Avanzava come un automa, talvolta costretto perfino a correre per non perdere gli altri. Na-sinisul avanzava a passo veloce, che i nildor non avevano difficoltà a tenere, ma che per Gundersen era ai limiti delle possibilità. Si vergognava per il rumore dei propri ansiti e grugniti, anche se nessun altro pareva farci caso. Il suo respiro si condensava in nuvolette davanti alla faccia, nebbia entro nebbia. Voleva disperatamente riposarsi. Ma non voleva chiedere agli altri di fermarsi per farlo riposare. Era il loro pellegrinaggio; lui era solo un ospite autoinvitatosi.
Un cupo tramonto cominciò a scendere. Il grigio divenne ancora più grigio, e la pallida traccia di luce solare diminuì. La visibilità divenne quasi zero. L’aria si fece alquanto fredda. Gundersen, vestito per la zona della giungla, rabbrividì. Qualcosa, che non gli era mai apparso importante, adesso lo turbò: l’alienità dell’atmosfera. L’aria di Belzagor, non solo nella regione delle nebbie, ma in tutte le regioni, non era composta come quella terrestre, poiché c’era un po’ più di anidride carbonica e un po’ meno di ossigeno; e le impurità residue erano anch’esse diverse. Ma soltanto un sistema olfattivo altamente sensibile avrebbe notato la differenza. Gundersen, condizionato all’aria di Belzagor dagli anni di servizio svolti sul pianeta, non se ne rendeva certamente conto. Ma adesso sì. Le sue narici gli comunicarono un sinistro sentore metallico; il fondo della gola gli sembrava ricoperto di nera sporcizia. Sapeva che si trattava di un’impressione prodotta dalla stanchezza. E tuttavia si accorse di aver ridotto per qualche minuto la respirazione, come se fosse più sicuro lasciar entrare nei suoi polmoni il meno possibile della pericolosa sostanza.